Renzo Margonari, pittore surrealista, critico d’arte, Direttore dal 1997 al 1998 dell’Accademia di Belle Arti Cignaroli di Verona; e sportivo eclettico

Notizie storico-critiche:

Renzo Margonari (Mantova, 1937). ‘Ho imparato a disegnare prima che a scrivere, ‘Surrealista per natura’, come si definisce, Margonari presenta la sua prima mostra personale a Mantova nel 1959. Congedato dal servizio militare, che svolge a Udine, nel 1960, inizia a lavorare come aiutante per alcuni artisti dell’area avanguardistica milanese e romana, e a collaborare nel settore della critica d’arte. Compie poi una serie di viaggi in Europa, Asia, Africa. Già nel 1961 è segnalata la sua partecipazione a importanti mostre collettive. Nel 1966 é tra gli organizzatori della Prima Mostra Mondiale di Poesia Visiva alla Casa del Mantegna di Mantova, e l’anno successivo cura per Franco Solmi, a Bologna, l’organizzazione della mostra ‘Il Presente Contestato’, una delle prime rassegne intemazionali a tesi critica d’arte contemporanea in Italia. Dopo l’esordio in campo artistico nell’ambito del nuclearismo milanese e dell’informale segnico (ispirandosi soprattutto a Scanavino), Margonari approda a una figurazione fantastico-espressionista, realizzando diverse opere dedicate alla liberazione dell’Algeria e altre appartenenti alla serie dei ‘vescovi’. Conosce i pittori surrealisti Sebastian Matta e Maurice Henry, Manina, Guy Harloff, Carlos Revilla, con i quali instaura uno stretto legame d’amicizia. Entra in contatto anche con Max Ernst e Marcel Jean, per i quali scrive note di presentazione alle mostre personali che questi artisti allestiscono in Italia. Contemporaneamente si accosta all’ambiente dell’avanguardia letteraria e diventando amico di Giorgio Celli, Adriano Spatola, Cesare Vivaldi. si focalizza attorno ad alcune figure (il pesce, la goccia, il fiore, la freccia), dipinte con una paziente puntigliosità descrittiva. Numerose le rassegne di pittura, grafica e scultura, in Italia e all’estero, a cui l’artista ha partecipato in questi anni .Fondatore della Scuola di Grafica Artistica di Castelnuovo del Garda, e direttore del Museo d’Arte Moderna di Gazoldo degli Ippoliti (Mantova). Ha tenuto le cattedre di Storia dell’Arte e di Pittura all’Accademia di Belle Arti Cignaroli di Verona, essendone direttore per oltre un decennio, dal 1987 al 1998.

IL SITO SI RENZO MARGONARI

http://www.renzomargonari.it/

UN DOCU-VIDEO SU RENZO MARGONARI

22 maggio 2024

INTERVISTA DI ADALBERTO SCEMMA A RENZO MARGONARI

“Chi comincia a ricordare comincia a invecchiare”. Non è una minaccia, è una balla cinese. Renzo Margonari la cita con sberleffo felino nell’incipit del suo “Occhiovolante” targato Pereira. Proprio lui che non avendo mai smesso di ricordare, ipercinetico-ipermnemonico, non ha mai smesso neppure di invecchiare. Continuerà a farlo in allegria, adesso che ha girato la boa degli 84 e che il tempo (sostiene Pereira?) ha ormai acquisito una dimensione più dilatata, lungo i solchi di indecifrabili chiromanzie mantuaneLo sberleffo felino è talmente poco casuale, in Margonari, da apparire irrinunciabile. Tra le tante vite che ricorda di aver vissuto, almeno quattro a memoria sua, la prima si è intersecata di certo con quella dei gatti che popolavano i tetti di via Corrado. Erano le stagioni dell’immediato Dopoguerra, RenzoDiscolo in castigo dietro le inferriate di un solaio vista lago. Ma al di là delle inferriate, divelte più prima che poi, ecco la presenza di una stralunata, affiatatissima, pigramente accoccolata colonia felina, soriani e siamesi, cenerini e certosini, gatti persiani e gatti d’Angora che la fantasia di Renzo ingigantiva in tigri e leopardi, leoni e pantere, e poi ghepardi, puma, linci, coguari, un microcosmo felino cui sentiva per istinto -l’ineffabile girovagare della mente- di appartenere.

Tutto quel mondo di ultragatti aveva finito, inesorabilmente, per animare storie pittoriche già consegnate alle dinamiche surreali. La prima mostra di Renzo in una piccola galleria di via Oberdan, di fianco alla pizzeria “da Gino”: in vetrina quadri di un’ammiccante, strepitosa originalità, gatti volanti e gatti guerrieri, gatti con i pattini e gatti con le ruote, gatti-ultragatti complici di quel pittore che a 15 anni già guardava a Magritte o a chissà chi, solitario e silente e tuttavia così attento a cogliere anche le più impercettibili vibrazioni del sentire.

C’è sempre un incipit fuori copione a scandire i tempi di ogni narrazione che trovi spazio nella memoria. Senza quei gatti e senza la curiosità creatasi attorno alla mostra di Margonari la storia della stagione più intensa della vita culturale mantovana (i vent’anni che intercorrono tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta) si sarebbe delineata in una direzione forse meno ostinata e di certo più contraria. Parlo della stagione irripetibile del “Portico” e del cenacolo lievitato attorno alla rivista. Perché tra Renzo Margonari e Mario Artioli, quest’ultimo studente del Liceo Classico, a sua volta un adolescente quindi, scattò davanti a quei quadri una strepitosa empatia creativa. E poi perché al loro fianco, a temperarne umori troppo spesso in ebollizione, si manifestarono in sinergia due padri nobili della cultura mantovana: Emilio Faccioli, docente di italiano e latino al Liceo Virgilio, e Giovanni Piubello, scrittore di culto.

Il “Portico” è stato a lungo l’espressione di un fermento culturale capace di contagiare e di coinvolgere personaggi di diversa estrazione, da Gino Baratta a Francesco Bartoli, da Umberto Artioli a Vladimiro Bertazzoni, ma a tracciarne la rotta -la memoria è ormai di pochi- ha contribuito un numero unico che ha rappresentato di fatto lo spartiacque tra la cultura della tradizione, ormai da troppo tempo sedimentata, e la ricerca ambiziosa di nuove forme espressive: “Il Colloquio”.

“Erano pagine di vita giovanile -racconta Renzo Margonari- troppo piene di sogni per poter avere un futuro. Era il 1956, Mario aveva 16 anni, io 19. L’idea era quella di creare un gruppo di opinione culturale, io facevo il critico letterario, non scrivevo ancora di pittura, Mario amava il mondo dei poeti, era poeta lui stesso. Emilio Faccioli e Renato Giusti testimoniavano con qualche loro scritto che si trattava di un’iniziativa seria”.

-Talmente seria da non poter avere un seguito?!

“Non riuscimmo a pagare lo stampatore, non avevamo un soldo! Intervenne Gianni Usvardi a saldare il debito, per nostra fortuna, su sollecitazione di Gianni Lui. Nel frattempo Umberto Artioli, Gino Baratta e altri suggerirono che l’esperienza poteva continuare formando un gruppo di opinione culturale che, a differenza di una rivista, non avrebbe avuto costi. E così, una volta alla settimana, ci trovavamo al bar “da Venzio”, sotto la Camera di Commercio, dove a turno tenevamo un seminario su cui si apriva poi la discussione. Andammo avanti per più di un anno, finché una sera Giovanni Piubello mi prese da parte, con Mario e Vladimiro Bertazzoni, per portare l’esempio di “Bancarella”: se ci riesco io, ci disse, potete riuscirci anche voi. Ma non era così facile, c’erano pareri discordi, le discussioni non finivano mai”.

-Poi a poco a poco, all’improvviso, accadde a un tratto…

“Accadde, certo, ma non subito. Passò ancora molto tempo, i tempi di allora erano più dilatati. Siamo ormai all’inizio degli anni Sessanta quando finalmente decidiamo di tentare. Parte l’avventura di “Cartabianca”, direttore Angelo Cami, io nel comitato di redazione con Mario, Vladimiro e gli altri del gruppo di ascolto con l’impegno di discutere insieme i contenuti. Ma esce il primo numero ed è subito polemica, una polemica feroce perché Cami ha idee destrorse estreme e inserisce interventi incompatibili con la linea riformista che avevamo fissato. Cami non accetta il confronto: acquista la rivista e ci sbatte fuori, fine della storia!”.

-Fine di quella storia. Lo scenario cambia in fretta.

“Cambia ma non in fretta, passa ancora un anno, arriviamo all’inizio del 1964. Piubello ci fa da apripista, si fa carico di ogni cosa, impaginazione, grafica, tipografia. Siamo in una ventina, quasi tutti cani sciolti se escludiamo Gino Baratta e Francesco Bartoli che avevano la tessera del Pci. “Il Portico” nasce così, nel giugno del 1964, senza una linea precisa ma con la necessità, ecco la sua forza, di un confronto continuo”.

-Mario Artioli direttore, dunque, e in redazione, oltre a te, anche Sergio Sermidi, Ferdinando Trebbi, Enzo Zelati e Umberto “Bambi” Artioli. Tra i fondatori Gino Baratta, Francesco Bartoli, Carlo Prandi, Giuliano Parenti, Vladimiro Bertazzoni e Mario Baroni. Non figuravano invece Emilio Faccioli e Giovani Piubello, rimasti dietro le quinte come suggeritori più o meno occulti. Tante teste, tanti pareri. Domanda ovvia: chi attivava il confronto?

“La mente era Mario Artioli. Con la sua grande capacità di soppesare l’importanza dei testi. Mario aveva un equilibrio che altri non possedevano, soprattutto gli indottrinati. Scoppiavano polemiche, a volte, anche furibonde. I temi della poesia visiva, per esempio. Io e “Bambi” Artioli ci eravamo schierati, nel dibattito, su una posizione non allineata provocando la reazione di Eugenio Miccini, un uomo geniale ma terribile. Mi sono trovato spesso, con Mario, a remare controcorrente. Gli ho sempre riconosciuto doti di bonomia e di saggezza, non l’ho mai visto esplodere, neppure quando avrebbe avuto tutte le ragioni per farlo”.

-Per esempio?

“Il rapporto con Baratta e Bartoli, a volte contraddittorio per via della loro collocazione politica, Bartoli comunista, Baratta ancora più a sinistra. Mario era socialista ma in forma ideologica, non partitica. Con l’andare del tempo si erano create troppe fratture: quando ci siamo accorti che su posizioni libertarie eravamo rimasti soltanto noi due, e pochissimi altri, Mario si è dimesso. Gli ultimi due numeri del “Portico” sono usciti infatti senza la sua firma nella gerenza”.

-La chiusura nel 1970, dopo un’esperienza straordinaria durata però soltanto sei anni. Nessuno si è fatto avanti per rilevare Mario Artioli. Perché?

“Perché nessuno era in grado di farlo. Mario era allievo di Luciano Anceschi, aveva alle spalle l’esperienza fatta sulla rivista “Il Verri”, di cui è stato poi vicedirettore. E “Il Verri”, negli anni Cinquanta e Sessanta, ha rappresentato un punto di riferimento per molti giovani letterati. Privo di Mario alla guida, il “Portico” ha perso la sua spinta propulsiva ma ha perso, soprattutto, la sua identità. E ha finito per chiudere”.

-Chiudere un’esperienza non vuol dire disperdere un patrimonio di conoscenza. Eppure, senza “Rossodisera” che ha digitalizzato tutti i numeri della rivista, di quegli anni sarebbe rimasto qualcosa soltanto nel ricordo dei nostalgici. Qual è stata, a distanza di mezzo secolo, l’eredità del “Portico”?

“Se parliamo di conoscenza, nessuna eredità. La conoscenza si attiva soltanto attraverso il confronto e a mancare, negli anni successivi, è stata proprio il confronto. Nessuno ne ha avvertito la necessità, ciascuno ha preferito assecondare, o promuovere, scelte esclusivamente personali”.

-Per esempio?

“Prendiamo Francesco Bartoli, che ha sempre avuto Gino Baratta come ispiratore. Una volta diventato assessore ha pensato soprattutto a sfruttare la situazione per valorizzare chi aveva un’estrazione culturale legata al vecchio Pci. Con il risultato di disperdere un patrimonio che non poteva prescindere da un continuo confronto culturale. Di qui la cristallizzazione che ne è seguita. Lo stesso Mario Artioli è stato blandito finché era in vita Luciano Anceschi, di cui era il pupillo, poi è stato di fatto messo in un angolo”.

-Cristallizzazione, dunque, ma soprattutto occasione banalmente e irrimediabilmente persa.

“In realtà l’ingresso in politica di Bartoli, o di “Bambi” Artioli, non mi era affatto dispiaciuto, ero convinto che si sarebbe potuta creare un’occasione di crescita. Non è stato così, gli interessi individuali hanno finito per prevalere. Con una sola meritoria eccezione, quella di Roberto Pedrazzoli”.

-Il suo assessorato alla Cultura in Amministrazione provinciale ha vissuto un’epoca aurea che purtroppo non ha avuto seguito.

“Pedrazzoli si è messo a disposizione della comunità sacrificando anche la propria valenza personale di artista. Ha avuto al fianco, non a caso, proprio Mario Artioli: le rassegne della Casa del Mantegna testimoniano la fecondità di quel periodo. La generosità e la lungimiranza, in entrambi i casi, ha rappresentato una splendida eccezione”.

-Non l’unica. Va citata anche la pubblicazione dell’opera omnia di Giovanni Piubello per Sometti. Fu mia l’idea ma la realizzazione pratica, capillare, certosina, appassionata, toccò proprio a Mario Artioli e a Vladimiro Bertazzoni. Alle loro spalle, non a caso, l’assessorato di Roberto Pedrazzoli. Altra storia, altra epoca, poi un blackout senza fine che dura ancora oggi: perché?

“Torniamo al discorso iniziale: manca il pathos, manca la spinta culturale che nasce dal confronto di opinioni. L’isolamento coatto brucia inevitabilmente ogni spirito di iniziativa”.

-Eppure tu stesso hai sempre corso da isolato. La tua presenza nel cuore del “Portico”, a ragionarci con il senno di poi, appare persino anomala. Non ci vedi una contraddizione?

“Bisogna intendersi sul significato di individualismo. Il non avere bisogno degli altri non vuol dire evitare di mettersi a disposizione. Quando ho intravisto un terreno fertile, e quello della prima stagione del “Portico” lo era, ho sempre aderito con entusiasmo dando anche un mio contributo, credo, in termini di generosità. Più avanti il mio correre da isolato, senza il supporto di etichette, è stato visto con sospetto, quindi come un pericolo”.

-In che senso?

“Quando la vita culturale si sedimenta, si appiattisce, chi propone qualcosa di nuovo rappresenta un elemento di turbativa, rompe certi equilibri consolidati”.

-La provincia è sempre stata piena di storie come queste e Mantova non può pensare di fare eccezione. Se manca il coraggio di scardinare i confini culturali provinciali l’esito è scontato. Uno spirito libero ha bisogno come l’aria del confronto. Se non lo trova in casa lo cerca fuori, la tua storia personale lo dimostra.

“Sono stato l’unico, di quella generazione, a uscire dall’isolamento e a cercare una proiezione esterna. Ho avuto la capacità di sapermi adattare alle varie situazioni ma credo, soprattutto, di aver avuto il coraggio di incontrare le persone più disparate e di confrontarmi con loro. Ho episodi infiniti che potrei raccontare. Mi viene in mente Max Ernst, a Parigi. Mi offrì un caffè ma il giorno dopo, precisò, sarebbe toccato a me offrire: lui era senza un soldo. A casa mia ho ospitato Marcel Jean e Maurice Henry. E poi Guy Harloff, che è sceso dal treno, alla stazione, portando un lupo al guinzaglio, Pierre Klossowsky accademico di Francia ha dormito a casa mia, Manina Jouffroy, Edouard Jaguer che mi reclutò nel gruppo Phases. Tutti i grandi personaggi del surrealismo sono passati di qui. E poi gli amici del “Gruppo 63”, Adriano Spatola e Giorgio Celli, che si prenotavano per gli agnolini di mia madre. Potrei continuare con Corrado Costa, Roberto Sanesi, con Grytzko Mascioni, quando lavoravo per la Tivù svizzera, con il giovanissimo Ferdinando Albertazzi”.

-Arturo Schwarz ti ha definito l’unico vero surrealista italiano. Tra le tue tante vite quale spazio ha avuto, ed ha, quella del pittore?

“Uno spazio importante, diviso tuttavia con quello riservato al critico-storico e al docente. Non ci sono interferenze ma interconnessioni. Che cosa rimarrà, di tutto ciò, mi importa poco: ho fatto, ho dato, ho ricevuto, è legge di vita che accetto e rispetto. Eppoi ci sono i cani, i fumetti, il jazz. C’è una mia vita segreta importantissima che appartiene soltanto a me e della quale, peraltro, non credo possa interessare qualcosa a qualcuno”.

-Dimentichi una tua vita in appendice, quella dello sportivo.

“Proprio questa vita, credo, mi ha fatto sempre sentire la necessità di un confronto. Ho ottenuto grossi risultati, da ragazzo, come pattinatore. I pattini sono sempre stati la mia grande passione. Correvo anche da adulto, davanti a Palazzo Te, Erbesato mi prendeva per matto. E poi l’atletica, gli anni trascorsi con i Masters della “Libertas” con quel record italiano di società della 4×100 che resiste ancora oggi. Il quartetto? Zambelli-Capilupi-Margonari-Davoglio, Viareggio 1980. Ma la mia corsa, su mille altre corsie, continua ancora oggi. Ogni traguardo, diceva Pietro Mennea, non è altro che un punto di partenza”.

Renzo Margonari premiato con targa dagli “Amici di Palazzo Te”

Renzo Margonari meraviglioso pittore surrealista

Renzo Margonari sportivo pluridisciplinare

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