La Ginga e la Capoeira alle radici del calcio brasiliano come espressione di riscatto sociale

di Vittorio Felice Pignata*                                              

“C’era una volta…”. Potrebbe essere questo l’incipit più adatto a descrivere quella che fu una favola, calcistica, e non solo. Ai Mondiali ’58 il Brasile dei grandi Didi, Vava, Garrincha e Altafini non arriva da favorita ma da squadra che deve dimostrare di aver superato il trauma subito otto anni prima nel cosiddetto “Maracanazo”. E i giocatori ne sono totalmente consapevoli. Sanno che per reggere il peso mediatico e cancellare quei brutti ricordi, dovranno cercare di emulare lo stile di gioco di squadre come la Svezia di Liedholm e la Francia del centravanti Fontaine.

L’ “europeizzazione” dello stile di gioco verdeoro però non dà grandi risultati ma soprattutto non convince. I brasiliani riescono a passare i gironi pur senza grandi prestazioni e inoltre devono fare i conti con una serie di gravi infortuni che costringono al riposo forzato giocatori importanti come Josè Altafini.

Era giunto il momento del non ancora diciottenne Edson Arante do Nascimento detto Pelè, giocatore brevilineo che aveva impressionato nelle giovanili del Santos, conquistandosi un posto da titolare nella prima squadra.

“Dico”, come era chiamato in famiglia, entra in squadra in un momento difficile per i verdeoro e, anche se non da subito, riesce ad impressionare il mondo intero, attraverso una pratica calcistica detta ginga grazie alla quale il giovane debuttante risultava immarcabile dagli avversari ma che era stata definita la causa principale delle disfatte precedenti, condannata per questo dai nuovi esponenti calcistici verdeoro.

L’importanza delle giocate di Pelè non fu solamente legata al rettangolo verde. Egli risvegliò nei suoi compagni di squadra e in ognuno dei connazionali un senso di appartenenza presente nel dna fin dai tempi della deportazione da parte dei portoghesi di schiavi neri dall’Africa al Sud America i quali, per salvaguardare la propria etnia e le proprie tradizioni, svilupparono una lotta-danzata chiamata capoeira allo scopo di liberarsi dai padroni.

La ginga era proprio una derivazione della capoeira applicata al gioco del calcio e che prevedeva l’utilizzo del pallone come strumento di educazione per le masse a suon di dribbling spettacolari, sombreri, finte di corpo ondeggianti e tunnel, effettuati accarezzando solamente il pallone. Il repertorio intero di Pelè, appunto.

(Le danze capoeira e ginga vengono ancora praticate in Brasile

e sono alla base dei virtuosismi dei calciatori carioca)

Quello che poi accadde nel mondiale ’58 rimase nella storia, ma la vera vittoria del Brasile non fu solamente calcistica. La vera conquista fu di carattere sociale. Da quel momento in poi i brasiliani iniziarono a credere più in sé stessi, sia come uomini sia, soprattutto, come comunità, vivendo secondo le proprie tradizioni e con la propria filosofia di vita, senza doversi paragonare ad altre culture, come quelle europee considerabili né peggiori, né migliori ma semplicemente diverse.

Pelè è riuscito a dimostrare a tutto il mondo, che rimanendo fedeli a sé stessi, si può trionfare. Proprio questa può essere definita come la più grande conquista che un giocatore, assieme ad altri ventuno in un rettangolo verde, può celebrare grazie un pallone. Non è solo un gioco!

*Vittorio Felice Pignata, studente del quinto anno del Liceo Scientifico a indirizzo sportivo Belfiore di Mantova, collabora alla rivista di letteratura sportiva “La coda del drago”, patrocinata dal Panathlon Club Gianni Brera Università di Verona

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