Chiediamoci anzitutto: Che cos’è il doping?
Secondo la definizione fornita da Wikipedia, il doping (drogaggio in lingua italiana)
consiste nell’uso di una sostanza o di una pratica medica a scopo non terapeutico, ma
finalizzato al miglioramento dell’efficienza psico-fisica durante una prestazione sportiva
(gara e/o allenamento), sia agonistica sia non agonistica, da parte di un atleta”
Le sostanze utilizzate per il dopaggio permettono di aumentare la massa e la forza
muscolare, l’apporto di ossigeno ai tessuti oppure di ridurre la percezione del dolore. Si
tratta quindi di un comportamento considerato sleale e scorretto, legato ai concetti di
imbroglio, truffa, inganno.

Chiediamoci anzitutto: Che cos’è il doping?

Secondo la definizione fornita da Wikipedia, il doping (drogaggio in lingua italiana) consiste nell’uso di una sostanza o di una pratica medica a scopo non terapeutico, ma finalizzato al miglioramento dell’efficienza psico-fisica durante una prestazione sportiva (gara e/o allenamento), sia agonistica sia non agonistica, da parte di un atleta”

Le sostanze utilizzate per il dopaggio permettono di aumentare la massa e la forza muscolare, l’apporto di ossigeno ai tessuti oppure di ridurre la percezione del dolore. Si tratta quindi di un comportamento considerato sleale e scorretto, legato ai concetti di imbroglio, truffa, inganno.

BREVE STORIA DEL DOPING E DEL CONTRASTO AL DOPING

La storia del doping inizia nell’antichità, all’epoca delle prime Olimpiadi nella Grecia classica.

In epoca moderna la lotta contro il doping degli sportivi di alto livello iniziò a seguito della morte del ciclista danese Knud Enemark durante i Giochi Olimpici di Roma del 1960.

Sull’onda di questo evento il Comitato Olimpico Internazionale e alcune federazioni sportive internazionali e nazionali istituirono nel 1967 una commissione medica che aveva la finalità di studiare le strategie di contrasto al fenomeno e furono introdotti dei test per la ricerca di sostanze dopanti (che vennero impiegati per la prima volta nei Giochi Invernali di Grenoble del 1968). Il 10 novembre 1999 fu creata l’Agenzia mondiale antidoping (WADA), che varò il Codice mondiale antidoping, che fu poi accettato dalle federazioni

sportive nazionali.

I CASI PIU’ FAMOSI

La prima testimonianza di doping nelle Olimpiadi moderne (citata assieme agli altri

casi più famosi nel sito dell’associazione Stelle nello Sport) è quello di Thomas Hicks nei Giochi di St.Louis nel 1904

A questo maratoneta statunitense fu assegnata la medaglia d’oro ai Giochi di St. Louis del 1904 nonostante il suo allenatore, lungo il tragitto, gli avesse somministrato per due volte, tramite iniezioni, del solfato di stricnina. Hicks non fu squalificato perché nel 1904 non esisteva ancora l’antidoping e non c’erano elenchi di sostanze proibite.

Alle Olimpiadi di Roma del 1960 il ciclista danese Knud Enemark Jensen cadde durante la 100 chilometri a squadre ed entrò in coma. All’inizio si pensò a un malore causato dalla calura estiva – quel giorno a Roma si registrarono 42 gradi – ma l’autopsia chiarì che il ciclista danese aveva fatto uso di sostanze dopanti. Qualche anno dopo la tragedia, nel 1967, il Comitato olimpico (Cio) decise di istituire una commissione medica e di iniziare i controlli antidoping nei successivi giochi, quelli invernali ed estivi del 1968.

E proprio a Città del Messico il Cio applicò la prima squalifica per doping: lo svedese Hans LilJenwall sarà ricordato negli annali come il primo atleta nella storia dei Giochi olimpici ad essere escluso perché fu trovato con una quantità eccessiva di alcol nel corpo.

Ben Johnson vinse i 100 piani a Seul 1988, ma venne squalificato perché trovato positivo agli steroidi in un controllo antidoping effettuato su un campione di urina poco dopo la gara. Al giamaicano naturalizzato canadese venne ritirata la medaglia d’oro (assegnata a Carl Lewis) e il record del mondo di 9.67, corso nella finale, venne cancellato.

Diego Armando Maradona, probabilmente il più grande calciatore di tutti i tempi, fu squalificato due volte per doping. La prima volta nel 1991, quando fu trovato positivo alla cocaina: venne squalificato per due anni. La seconda volta durante i mondiali di calcio del 1994: giocò bene la prima partita, in cui segnò anche un gol, ma fu trovato positivo all’efedrina, una sostanza stimolante. La FIFA lo espulse dalla competizione.

Il caso Krieger, la donna diventata uomo a causa degli steroidi

Heidi Krieger, nata nel 1966 a Berlino, fino al 1997 era una donna. Gareggiò agli europei di atletica del 1986 e ai Giochi olimpici del 1988 con la nazionale della Germania Est.

Come molti atleti suoi connazionali, Krieger era pesantemente dopata. Le sostanze

dopanti assunte per anni trasformarono il suo corpo e le diedero grandi problemi di salute, tanto da indurla nel 1997 a sottoporsi a un intervento chirurgico, cambiare sesso e diventare uomo (con il nome di Andreas).

Il Caso Pantani

Il ciclista italiano Marco Pantani, vincitore di un Giro d’Italia e di un Tour de France, fu escluso dal Giro del 1999 a causa di un valore di ematocrito nel sangue superiore alla soglia consentita. Non si risollevò più, finendo suicida per overdose.

Donati puntò il dito contro un sistema inaccettabile e in particolare contro uno scienziato che addirittura era stato Rettore di un’Università, miracolato infine da una prescrizione.

L’americano Lance Armstrong dal 1992 al 2011 dominò il Tour de France (vincendo addirittura 7 edizioni consecutive nella storia della corsa francese) dal 1999 al 2005, ma tutti i suoi risultati furono annullati perché fu accertato che li ottenne grazie all’uso

sistematico di pratiche dopanti. Il suo preparatore era il medico sportivo italiano Michele Ferrari, che fu condannato e multato per frode sportiva.

La statunitense Marion Jones fu la regina dell’atletica delle Olimpiadi australiane, con ben cinque medaglie, ma nel 2007, dopo essere stata accusata di aver fatto uso di doping e dopo il suo coinvolgimento nelle indagini su una casa farmaceutica americana, la BALCO, fu lei stessa a dichiarare di aver assunto sostanze proibite prima, durante e dopo i Giochi Olimpici di Sydney, per cui restituì le medaglie vinte in quell’occasione.

Un altro caso che destò scalpore fu quello che riguardò il giocatore di baseball americano Barry Bonds, accusato di aver assunto steroidi.

Addirittura il greco Kostas Kenteris e la connazionale Ekaterini Thanou furono costretti a disertare i Giochi di Atene del 2004, per evitare di sottoporsi ai controlli antidoping.

Il mondo del ciclismo fu nuovamente messo in crisi tra il 2006 e il 2007, quando fu sgominata un’organizzazione che si dedicava alla gestione di autoemotrasfusioni, alla vendita di sostanze dopanti, quali EPO, ormoni della crescita, anabolizzanti, e alla pianificazione del loro utilizzo. Ben 58 i ciclisti (tra cui Contador, Valverde, Ullrich, Ivan Basso, Michele Scarponi, accusati di farne uso).

Davide Rebellin, il ciclista italiano condannato e poi assolto dopo Pechino 2008

Il ciclista italiano Davide Rebellin, squalificato nel 2009, fu invece assolto successivamente per mancanza di prove.

Piuttosto particolare il caso del coreano Kim Jong, che fu squalificato nel 2008 ai Giochi di Pechino nel tiro di precisione con la pistola, perché fu trovato positivo ai betabloccanti, sostanze che rallentano il battito cardiaco e quindi diminuiscono il tremore delle mani quando si prende la mira per sparare.

Maria Sharapova, la regina del tennis, frenata dal Meldonium.

Decisamente strana la situazione in cui si trovò la tennista Maria Sharapova, squalificata per aver fatto uso di del farmaco Meldonium, che ad un certo momento era stato aggiunto

all’elenco delle sostanze proibite a sua insaputa – questa è la sua versione – per colpa del

suo manager, che non l’aveva informata. Successivamente fu riammessa alle gare, ma ormai la sua carriera era in declino.

I personaggi come Donati vengono definiti “anomali” nel mondo sportivo, perché i nemici dichiarati del doping sono pochi, se non pochissimi.

Molti Paesi chiudono almeno un occhio sulla pratica del doping. Alcuni però esagerano.

E’ il caso della Russia, squalificata per “doping di Stato”

(vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Doping_di_Stato_in_Russia)

Una sorta di uragano si abbattè infatti sulla Russia, quando la Commissione della Wada, l’agenzia mondiale antidoping presieduta dal canadese Dick Poound, presentò un report, a partire dal 2014, dai riscontri agghiaccianti. Secondo quel report, la Russia avrebbe praticato negli ultimi anni un vero e proprio doping di Stato, creando un’organizzazione interamente votata alla manipolazione dei risultati.

Fu deciso che la Russia non avrebbe potuto partecipare con la bandiera o l’inno ai Giochi Olimpici e Paralimpici o a campionati del mondo controllati dall’agenzia Wada (World Anti-

Doping Agency). Gli atleti russi avrebbero potuto presentarsi alle gare solamente come partecipanti neutrali, cioè singolarmente.

 IL CASO SCHWAZER  

E’ il caso più eclatante e noto in tutto il mondo, grazie anche alla serie TV che Netflix gli ha dedicato.

Alex Schwazer, nato a Vipiteno nel 1984, è un marciatore italiano, vincitore nel 2008 del titolo olimpico della 50 Km a Pechino.

Fu squalificato per doping due volte: la prima volta – non contestata dallo stesso Schwazer – nel luglio 2012 (per cui fu escluso dai Giochi in programma in agosto a

Londra); la seconda volta nel 2016 e fino al 2024 (per cui non potè partecipare neppure alle successive Olimpiadi del 2016 e del 2020), nonostante il procedimento penale per doping a suo carico fosse stato archiviato dal Tribunale di Bolzano: tale archiviazione, però, non fu accettata dagli organi internazionali sportivi di controllo.

La questione, tuttavia, non si è ancora chiusa del tutto sul piano giuridico, perché l’atleta si è appellato al Tribunale Internazionale dei diritti dell’uomo, denunciando un complotto degli organi sportivi contro di lui.

Un complotto? Per quale motivo?

Forse perché gli organi sportivi tendono a non tollerare che un atleta squalificato per doping possa riabilitarsi?

O forse perché Schwazer dal 2015 si era messo nelle mani del Maestro dello Sport Sandro Donati, da sempre nemico numero uno del doping e di chi ne consente colpevolmente l’uso?

O semplicemente perché la Giustizia funziona, in tutti i campi, sulla base di regole, indizi e prove che talvolta sembrano incomprensibili ai non addetti ai lavori?

Vediamo che cosa decise il Tribunale di Bolzano.

TRIBUNALE DI BOLZANO –

TEORIA DEL COMPLOTTO CONTRO SCHWAZER

https://www.giurisprudenzapenale.com/2021/02/20/il-provvedimento-di-archiviazione-del- procedimento-a-carico-di-alex-schwazer/

Tribunale di Bolzano, Giudice per le Indagini Preliminari, 18 febbraio 2021 Giudice Dott. Walter Pelino

Pubblichiamo, tenuto conto dell’elevato interesse mediatico sollevato dalla vicenda, l’ordinanza del G.I.P. presso il Tribunale di Bolzano con cui è stata disposta l’archiviazione, per non avere commesso, il fatto di Alex Schwazer, marciatore italiano campione olimpico, che era stato accusato di “avere illecitamente fatto uso di sostane dopanti (testosterone), al fine di migliorare le sue prestazioni atletiche” (attuale art. 586bis c.p., al momento dei fatti disciplinato dall’art. 9, c.1, Legge 376/2000).

Il Giudice per le indagini preliminari bolzanino, nell’accogliere la richiesta formulata dal Pubblico Ministero, ha ritenuto “accertato con alto grado di credibilità razionale che i campioni d’urina prelevati ad Alex Schwazer l’1.01.2016 siano stati alterati allo scopo di farli risultare positivi e, dunque, di ottenere la squalifica ed il discredito dell’atleta come pure del suo allenatore, Sandro Donati”.

L’ordinanza sposa la tesi della “teoria del complotto”: la decisione di sottoporre il marciatore al controllo antidoping a sorpresa, difatti, sarebbe stata presa proprio il giorno in cui Schwazer aveva testimoniato contro due medici della federazione di atletica, accusati di aver spinto alcuni sportivi a doparsi: “Doping di Stato, dunque e una testimonianza pericolosa che non solo veniva all’interno di quel mondo, ma anche da un atleta che aveva scelto come proprio allenatore il paladino dell’antidoping: Sandro Donati. Colpire Schwazer significava, dunque, neutralizzare quella pericolosa testimonianza e, al tempo stesso, neutralizzare Sandro Donati, da quel momento allenatore di un dopato”.

Tra le varie prove della manipolazione delle provette contenenti l’urina dell’indagato, secondo il G.I.P., ci sarebbe innanzitutto l’anomala concentrazione di DNA riscontrata nei campioni “che non trova altra spiegazione credibile se non nella manipolazione” e la circostanza che l’unico controllo antidoping che sia mai stato effettuato il giorno di Capodanno è stato proprio quello a carico di Schwazer (ciò avrebbe portato, date le festività, lo stazionamento per molte ore delle provette nei laboratori e reso agevole una loro alterazione sia a Stoccarda che a Colonia).

Il Giudice non solo ha archiviato il procedimento a carico dell’atleta, ma ha anche disposto la trasmissione degli atti al P.M. in relazione ad alcuni reati (falso ideologico, frode processuale, diffamazione) che avrebbero commesso alcuni “accusatori” di Alex Schwazer.

SUCCESSIVAMENTE LA WADA CONTESTO’ LE CONCLUSIONI DEL TRIBUNALE DI BOLZANO:

«Accuse spericolate – scrisse in un comunicato stampa del 22 aprile 2021 _ e prive di fondamento. Valuteremo ogni opzione, anche l’azione giudiziaria».

E nel maggio 2021 IL TAS (Tribunale Arbitrale dello Sport) di Losanna NON PERMISE LA SOSPENSIONE DELLA SQUALIFICA

SCHWAZER CHIESE QUINDI AL TRIBUNALE    FEDERALE SVIZZERO LA SOSPENSIONE DELLA SQUALIFICA.

MA IL TRIBUNALE SVIZZERO RESPINSE LA RICHIESTA DELL’ATLETA:

la prima Corte di diritto civile del Tribunale federale svizzero di Losanna, nel successivo autunno, non concesse infatti la revisione della squalifica perché non era stato indicato il soggetto autore della “manomissione” dei campioni di urina.

NOTA. Non dobbiamo dimenticare che la Giustizia è obbligata a rispettare delle regole, alcune delle quali possono sembrare assurde. Basti pensare al caso Regeni, bloccato per motivi abbastanza simili …

A questo punto è rimasta una sola carta in mano allʼatleta.

Alex Schwazer ha dato mandato ai suoi legali di preparare il ricorso alla Corte europea  dei diritti dell’uomo di Strasburgo contro la sentenza della giustizia sportiva (Tas di Losanna) che nel maggio del 2021 aveva confermato la squalifica per doping dell’atleta altoatesino.

La motivazione del ricorso si basa sul fatto che il Tribunale arbitrale dello sport di Losanna non aveva tenuto conto del provvedimento assolutorio (per non aver commesso il fatto) del gip del Tribunale di Bolzano, Walter Pelino.

La decisione di ricorrere alla Corte europea è stata confermata dal legale di Schwazer, l’avvocato bolzanino Gerhard Brandstätter. “Andremo ad evidenziare tutte le violazioni del diritto di difesa che la giustizia sportiva ha contestato ai danni di Schwazer – ha affermato il legale – a partire dal procedimento di Losanna”.

TAPPE DI SCHWAZER

Positivo al doping (prima volta)

Accusato una seconda volta di doping

Il Tribunale di Bolzano assolve Schwazer e presume complotto

Schwazer ricorre al Tas (Tribunale Arbitrale dello Sport) e al Tribunale Federale Elvetico

I due Tribunali danno torto a Schwazer: non parteciperà ai Giochi di Tokio

Il Tribunale di Bolzano ritira l’accusa di complotto Schwazer ricorre al Tribunale dei diritti dell’uomo

La squalifica di Schwazer terminerà nel 2024, anno delle Olimpiadi di Parigi

Che stia pensando di parteciparvi?

Alex Schwazer – osserva RAI News – non vuole illudersi, per troppe volte ha perso la possibilità di ritornare a nastri di partenza. Ma l’atleta che è in lui non potrà mai smettere di sognare e, soprattutto, di aspirare alla verità: “Non mi illudo, mi sono scottato troppe volte, però sarei pronto, anche se ora la priorità è la famiglia. Ho già perso due Olimpiadi e al momento Parigi non è un’ipotesi. Mi sento però sempre un atleta e mi alleno. All’Olimpiade non voglio nemmeno pensarci, non voglio e non devo più farmi illusioni ma mi piacerebbe tornare”.

Il quotidiano “La Gazzetta dello Sport” non solo ricostruisce la lunghissima e contorta vicenda che lo perseguita da quel controllo antidoping del 1° gennaio 2016, ma annuncia la possibilità di uno sconto di pena sulla squalifica, che scade il 7 luglio 2024, in quanto l’atleta 38enne ha collaborato con l’Aiu, l’Athletics Integrity Unit, a cui è stata delegata ogni attività antidoping. Secondo il regolamento interno dell’organismo, chiunque collabori attivamente con loro per denunciare violazioni antidoping potrà usufruire di uno sconto sulla squalifica, fino a un massimo del 75%.

Dal momento in cui Schwazer ha segnalato un caso di violazione delle regole e l’Aiu ha accertato che la sua testimonianza è stata “un aiuto sostanziale” sono trascorsi due anni, ma ad oggi l’atleta non ha ancora ricevuto la riduzione di pena. Anzi, i tempi sembrano

allungarsi sempre di più. E senza sconto non si arriva al 30 giugno, ultima data utile per

poter ambire ad una qualificazione per i Giochi di Parigi. Certo, la competizione è diversa, l’età avanza, bisogna essere realistici, ma l’obiettivo rimane sempre lo stesso: partecipare.

Anche Giovanni Malagò, intervistato sempre dal quotidiano sportivo, ha espresso la sua opinione sul caso: “Su Schwazer c’è accanimento. Perché negargli un sogno meraviglioso? Capisco Alex che vuole rimanere aggrappato allo sport. È una storia unica”.

La squalifica al campione olimpico della 50 km di Pechino 2008 fu inflitta per recidiva al doping nell’agosto del 2016, durante i Giochi di Rio de Janeiro, e si esaurirà il 7 luglio 2024: pochi giorni dopo l’ultima scadenza per qualificarsi a Parigi.

Ma potrebbe aspirare ad una riduzione della pena, avendone diritto …

Il magazine bimestrale di letteratura sportiva nostro Club, dedica  .

, patrocinato dal

Questo il primo articolo:

È ormai un bestseller il libro-documento di Alessandro Donati sul “caso Schwazer”, il più clamoroso tra tutti gli scandali che hanno inficiato il mondo dello sport negli ultimi anni. Esaustivo il titolo: I signori del doping, e ancora più esaustivo il sottotitolo: “Il sistema sportivo corrotto contro Alex Schwazer”. Ma c’è di più: i tipi non sono quelli di un editore di nicchia, peraltro ampiamente meritevole di attenzione, come il Gruppo Abele-Libera di don Ciotti (con cui Donati ha pubblicato nel 2013 il best seller Lo sport del doping-chi lo subisce, chi lo combatte) bensì quelli di un colosso come la Rizzoli. Il segno evidente di un cambiamento di rotta epocale anche nel sistema, spesso occultato, della comunicazione? Teniamoci stretto, per quanto possibile, il piacere dell’evidenza senza indagare oltre tra i meandri di un Sistema (S maiuscola, stavolta) che talvolta-spesso-mai, cambia come un Gattopardo esiziale perché tutto rimanga invariabilmente come prima.

“Un documento unico per capire il nostro tempo e le sue pericolose e spietate storture”: così la Rizzoli, in quarta di copertina, presenta sinteticamente il libro, che si avvale della prefazione appassionata e documentata di Attilio Bolzoni, editorialista e inviato speciale della Repubblica. E proprio Bolzoni descrivendo l’incipit tra Schwazer e Donati, parla di “un incontro tra due emarginati”, il campione caduto nel fango con il desiderio di riprendere il suo onore e il grande allenatore isolato dal potere sportivo per le sue violente denunce: “Il branco come avrebbe mai potuto tollerare questo legame dagli imprevedibili effetti? E come avrebbe mai potuto perdere quest’occasione? Far fuori tutti e due in un colpo solo: con una provetta”.

Il libro possiede una prerogativa che lo rende affascinante già a una prima frettolosa lettura: ha il ritmo serrato della spy-story. È la realtà che supera la fantasia: un vile e sporco agguato che ha fatto saltare ad Alex l’Olimpiade di Rio 2016, e poi falsificazione di provette, menzogne su menzogne e un intrigo internazionale che porta fino in Russia per un giro d’affari stellare. E alla fine l’innocenza di Alex viene riconosciuta dalla giustizia ordinaria -la Procura di Bolzano- ma non dalla giustizia sportiva!

Qual è, ci si chiede, il senso di tutto ciò? Lo si scopre leggendo un libro che, come scrive Bolzoni nella prefazione, “è saggio, è narrazione, è atto di accusa ma soprattutto è l’eredità preziosa che ci lascia uno dei grandi personaggi dello sport contemporaneo. La spaventosa storia di Alex Schwazer, il testamento di Sandro Donati”.

Questo l’explicit. Ma a intrigare chi segue lo sport attraverso la via maestra, quella dell’etica, quella del piacere sublime del confronto con gli altri ma anche con sé stessi, non può non essere la ricerca dell’incipit. Quando e come è cominciata l’avventura di Sandro Donati nel territorio del doping? Quale, soprattutto, è stata la scuola che ha acceso in lui la fiamma della conoscenza? Ecco un argomento, di estrema attualità e quindi di estremo interesse mediatico, che è stato al centro della giornata sullo sport andata in scena di recente a Campitello di Fassa a cura dell’Amministrazione comunale.

Lo spunto è stato offerto dalla presentazione del libro Il Profe che insegnava a sbagliare (edito da Fuorionda), dedicato alla figura straordinaria Walter Bragagnolo, idealista e provocatore, che creando il visionario “Metodo di amplificazione dell’errore” ha innovato l’attività di ricerca sul movimento umano. Il prof. Ivo Bernard, sindaco di Campitello, già allievo di Bragagnolo, ha chiamato a raccolta gli studiosi di quel periodo, tutti animati dal sacro fuoco della conoscenza, per raccontare in libertà “storie mai raccontate prima”.

Dicevamo dell’inizio dell’avventura tortuosa di Sandro Donati nel territorio del doping. Non è un segreto: Donati ha avuto proprio in Bragagnolo, da lui descritto come “eretico da medaglia” un nume tutelare all’inizio della sua attività di allenatore e di studioso. E allora ecco qui riproposta l’intervista realizzata pubblicata nel libro Il Profe che insegnava a sbagliare (sezione “La strada della ricerca”). Il titolo del capitolo, non certo casuale, è “Eretici da medaglia”:

Anni di battaglie. Di fronte comune. «Con Bragagnolo abbiamo lottato assieme contro il doping e la deriva dell’allenamento quantitativo di stampo sovietico che induceva gli atleti ad assumere anabolizzanti».

Sandro Donati, 75 anni, storico allenatore di atletica leggera – dal 1977 al 1987 anche della Nazionale italiana e oggi responsabile della metodologia dell’allenamento del Coni in vista delle Olimpiadi di Tokyo del 2021- simbolo della lotta al doping e tornato alla ribalta in questi anni per la strenua difesa del marciatore Alex Schwazer dopo il (controverso) caso della sua positività nel 2016, ha un ricordo intenso del prof. Walter Bragagnolo. Erano gli anni 70. «Non che ci frequentassimo molto, ci saremo visti una ventina di volte, ma quelle sono state importanti per la mia formazione. Quando ci incontravamo parlavamo a lungo, c’era comunanza di vedute, lui allenava Sara Simeoni e ci raggiungeva nelle trasferte con le squadre nazionali…».

Che ricordo ne ha?

«Io ero un giovane tecnico emergente, lui già un’istituzione. Bragagnolo, con Russo, Vittori e Matteucci, ha dato un’impostazione all’atletica italiana».

Eravate della stessa scuola di pensiero…

«Allora costituivamo una minoranza critica all’interno della Federazione, sostenevamo l’allenamento qualitativo e avevamo una lettura comune riguardo la presenza del doping diffuso nell’atletica. Ma Bragagnolo anche come preparatore rappresentava un qualcosa che oggi purtroppo in parte si è perso».

Nello specifico?

«Lui apparteneva a una nidiata di insegnanti ISEF formati molto bene, che sapevano unire conoscenze teoriche e pratiche. Bragagnolo aveva profonde conoscenze della biomeccanica e nello stesso tempo disponeva di un occhio formidabile che gli permetteva di cogliere all’istante l’essenziale del movimento dell’atleta».

Non è più così?

«Oggi manca l’equilibrio tra teoria e pratica. Purtroppo molti allenatori non sono laureati in Scienze Motorie (lo sbocco nell’atletica non conviene più economicamente) e sono privi delle giuste conoscenze teoriche; ma anche a Scienze Motorie, perlomeno in alcune facoltà, noto che si dà troppo peso alla teoria e questo toglie capacità di osservazione e di correggere l’atleta sul momento. Infine la Federazione negli anni ha reclutato gli allenatori spesso con logiche clientelari e non meritocratiche».

Risultato?

«Registro una perdita tremenda per il nostro mondo. Rispetto ai tempi di Bragagnolo o dei miei inizi, gli allenatori di adesso grazie alla tecnologia dispongono di un quantitativo di dati impressionante, il problema è che non sempre sono bravi a contestualizzarli e a interpretarli. Questo conduce a commettere un errore a monte». Quale?

«Si tende a separare la forza dalla tecnica, come fossero due elementi separati che poi magicamente si combinano tra loro. Ma non è così, se lavoro sulla forza devo farlo già in funzione della complessità della tecnica di quello sport, ciò significa che devo compiere la scelta giusta sui carichi di lavoro e il tipo di esercizi. Purtroppo non si conosce a fondo l’anatomia e la biomeccanica e stiamo smarrendo il vasto patrimonio di conoscenza del preatletismo generale e specifico, quindi la gamma di esercitazioni a carico naturale. Insomma, assistiamo ancora una volta alla deriva della quantità e della forza fine a sé stessa».

Il metodo quantitativo arrivò in Italia a fine anni 70 importato dall’Urss. Lei e Bragagnolo, come ricordava prima, eravate minoranza critica nel contrastarlo…

«A Mosca c’ero stato, avevo visto con i miei occhi e capito subito il loro sistema: sovraccarichi di lavoro e l’atleta portato sopra la soglia di uno stress continuo e insostenibile. Da lì la strada verso gli anabolizzanti era conseguenziale. In Italia per troppi anni si è taciuto, c’è stata grande ipocrisia, io nel 1987 fui escluso dalla Nazionale per le mie denunce. Sono stato ripescato solo di recente da Malagò, con la somma sorpresa dei molti miei nemici che mi credevano finito, morto e sepolto».

Ci fu la denuncia e il pentimento di Sergio Zanon (preparatore e traduttore dei libri sovietici) al Gazzettino nei primi anni 2000, ricorda?

«Fu un’eccezione. Lui comunque per certi versi fu vittima di quel sistema, ma poi ebbe coraggio a pentirsi e a denunciare, seppur timidamente. Ma quanti altri facevano e non hanno mai detto niente? Ancora oggi si celebrano record abbastanza ridicoli e fasulli».

L’impressione però è che l’industria del doping sia sempre un passo avanti all’antidoping.

«Non diamo una patente di scientificità al doping. Il doping è solo terra di personaggi tristi, che ci arrivano per emulazione. Gli allenatori che prendono queste scorciatoie appartengono a un gregge dalle scarse competenze che cerca la soluzione magica». Lei, simbolo della lotta al doping, nel 2016 si è trovato Schwazer, che in quel momento allenava, positivo per la seconda volta. Un caso controverso, dove i sospetti di manomissione delle provette sono forti. Da anni è in prima linea per difenderlo.

«Alex l’ho allenato fino all’ultimo, nella speranza di portarlo alle Olimpiadi di Tokyo. Era ancora più forte di quattro anni fa. Lo hanno inchiodato sul suo errore del 2012. Allora la squalifica fu giusta, sacrosanta, io stesso lo bersagliai senza sconti, stavolta però era un’altra cosa, una storia infame di manomissione di provette. Hanno voluto fargli perdere credibilità dopo le sue denunce seguenti alla prima squalifica del 2012, l’odio verso di lui da allora è totale. Certamente poi hanno colpito lui anche per colpire me, non mi hanno mai perdonato di aver offuscato l’immagine di certi dirigenti dello sport».

Come si contrasta il doping?

«Il problema non lo puoi risolvere, è utopistico pensarlo, tuttavia puoi ridurlo, devi concentrare le forze sulla riduzione del danno. La strada della cultura è quella giusta. In Federazione per anni non si sono assunti gli allenatori in base al loro talento, ma ci si è limitati a prendere atto di quelli che in qualsiasi modo, anche non ortodosso, ottenevano risultati. Mentre occorre formare allenatori fortemente preparati sulla qualità dell’allenamento, allenatori del genere tenderanno a rifiutare la strada del doping».

Il sano narcisismo che porta a rifiutare le scorciatoie.

«Proprio così, ha detto bene. Chi accetta il doping è un mediocre, un insicuro, mentre l’allenatore bravo vive un sano senso della competitività che lo porta a non imbrogliare».

Il metodo qualitativo dell’allenamento insomma è la strada maestra.

«Sì, esercizi mirati, lavoro di forza impostato sulla tecnica senza slegare i due elementi, qualità del movimento atletico, differenziazione dei carichi da un giorno all’altro, alternanza allenamento e riposo».

È la lezione di Bragagnolo attualizzata?

«È la sua eredità. Lui coniugava un equilibrio perfetto tra teoria e pratica, padroneggiava la tecnica, aveva una grande capacità di osservazione e di comprensione del dinamismo dei movimenti. In una parola era un conoscitore della biomeccanica. Solo così puoi mettere, se lo ritieni opportuno, le mani sull’atleta, modificando una sua caratteristica o una sua tecnica».

Il secondo articolo della rivista è stato scritto quest’anno ai primi di agosto, dopo la presentazione a Campitello di Fassa di due libri di Sandro Donati: “I Signori del doping”:

“I Signori del doping” e “Dopo il traguardo”, due bestsellers librari al centro dell’attenzione sabato sera a Campitello di Fassa, dove il pubblico ha riempito la piazza per la presentazione e si è messo in coda per farsi firmare le copie (tutte esaurite, sold out!). Una dimostrazione spontanea di affetto che ha commosso al di là di ogni frase di convenienza ma Sandro Donati e Alex Schwazer hanno giustificato ampiamente l’attesa onorando la serata con interventi di elevato spessore, sia tecnico che umano e culturale. Perché proprio di cultura dobbiamo parlare nell’accezione più rigorosa del termine, cultura come conoscenza. Non c’è stato bisogno di perifrasi per andare al cuore di un argomento che sta appassionando il pubblico: una storia, quella cui Alex Schwazer e Sandro Donati hanno dato vita con le loro denunce, che attende ancora la parola fine e che le quattro puntate del docufilm mandato in onda su Netflix hanno costantemente attualizzato portandola a conoscenza di un pubblico internazionale.

Accogliendo l’invito del sindaco Ivo Bernard e di Michela Marangoni dell’Associazione culturale Antermoia è toccato al prof. Adalberto Scemma, nostro direttore, in rappresentanza del Panathlon Club Gianni Brera-Università di Verona, il compito di moderare un incontro che ha trovato un nuovo innesco mediatico grazie alla battaglia condotta da “La Gazzetta dello Sport” accanto ai due protagonisti con tre firme d’eccellenza in prima linea: Pier Bergonzi, Franco Arturi e Valerio Piccioni. Proprio nel giorno della presentazione di Campitello di Fassa la “rosea” ha realizzato infatti altre quattro pagine (oltre alle tredici già uscite nel mese di luglio) per testimoniare l’accanimento con cui la WADA, l’agenzia mondiale antidoping, e la World Athletics, la federazione internazionale, stanno orchestrando il complotto (perché di questo si tratta) per impedire ad Alex il ritorno alle gare e per togliere a Sandro la credibilità acquisita come icona dell’antidoping.

Mai un quotidiano sportivo si era spinto a tanto per condurre un’inchiesta. Prima de “I Signori del doping”, un libro-denuncia che ha il ritmo della spy story, Sandro Donati ha scritto altri due libri persino più esplosivi per i contenuti, per il periodo in cui sono usciti (erano gli anni bui dell’editoria sportiva) per la caratura dei personaggi coinvolti: “Campioni senza valore”, uscito nel 1989, e “Lo sport del doping”, edito nel 2012. Nessuno di questi due libri, divenuti comunque dei best sellers – anche se il primo era stato fatto sparire subito dalle librerie- ha avuto però il successo mediatico de “I signori del doping”, edito da Rizzoli con la prefazione di Attilio Bolzoni. Perché dunque tutto questo interesse improvviso? La risposta è semplice: perché questa è una storia che contiene tutti gli elementi cardine del romanzo popolare: l’energia e la fragilità, la caduta e la risalita, e poi la doppia verità di Alex, prima colpevole e poi innocente.

Questo è lo scenario, però c’è un’altra domanda che attende una risposta. Perché questa storia è rimasta incompiuta? Perché dopo sette anni non è stato ancora emesso un verdetto definitivo? Qui c’è un problema di fondo: la giustizia sportiva o meglio, le istituzioni sportive, preferiscono tirare i fili per mantenere lo status quo pur di non emettere quel verdetto di innocenza che qualsiasi tribunale penale, non soltanto quello di Bolzano che si è già espresso ufficializzando l’idea del complotto, avrebbe già emesso.

“Per fare sport ad alto livello – ha ribadito Donati – non servono farmaci. Io l’ho dimostrato e sono cominciate le disgrazie. Schwazer si è allenato con me a Roma senza assumere farmaci o integratori e dismettendo tutte le sporcizie che venivano somministrate a lui dai medici federali e dai medici del Coni. Aveva dichiarato di assumere antiasmatici per un’asma che non ha mai avuto! La tecnica e la tattica di per sé rappresentano l’elemento culturale che fa da antidoto al doping. Il problema sono le federazioni dove contano soltanto la forza e la resistenza, la tecnica è secondaria. In quelle federazioni si sono imposti dirigenti tecnici e medici che sono vissuti nel doping e lo hanno coltivato per tutta la vita corrompendo le generazioni successive. Non possiamo lasciare la formazione dei tecnici alle organizzazioni sportive perché le organizzazioni insegnano soltanto le tecniche e le metodologie di allenamento. Cioè addestrano gli atleti a essere quasi esclusivamente dei produttori di risultati. E allora ecco che un giovane tecnico, dovendo ottenere risultati, deve utilizzare gli strumenti del doping in maniera sempre più elevata”.

Il docufilm di Netflix e il supporto fornito da “La Gazzetta dello Sport” sono stati accolti da Alex Schwazer con estremo favore proprio per il riscatto mediatico che innescano. “La serie -dice- è stata vista in vari paesi del mondo e ha rappresentato per me la liberazione di poter comunicare. Si tende troppo spesso a interpretare i fatti in maniera provinciale, le notizie passano con difficoltà da un paese all’altro: mi aspetto riflessioni a livello internazionale. Nel villaggio globale dello sport le multinazionali dominano il mercato e operano con una mancanza di rispetto totale nei confronti della giustizia ordinaria. Il problema è che le istituzioni che governano lo sport e i controlli antidoping se la fanno e se la disfano calando con protervia una sola carta: l’autoreferenza”. Tutti concetti espressi con chiarezza anche nel coinvolgente “Dopo il traguardo”, edito da Feltrinelli. “Quando ho toccato il fondo – sottolinea Alex- mi sono chiesto come mi fossi cacciato in quella situazione. Quel giorno ha segnato la rinascita dell’uomo che avevo dentro e che da tanto tempo non trovava spazio per uscire. Quel giorno ho capito di essere in un labirinto immenso e apparentemente senza via d’uscita, nel quale brancolavo da anni. Un labirinto nel quale avevo perso tutto. La persona che ero, la mia fidanzata, la credibilità, la dignità. Solo ora ne sono uscito. Sono sopravvissuto a un’imboscata, una macchinazione subdola e crudele che in altri momenti mi avrebbe annientato. Ancora oggi, a distanza di cinque anni, non so come ho fatto a mantenere l’equilibrio. Questa è la storia che voglio raccontare. Il libro è un resoconto sincero, schietto, fedele di ciò che mi è capitato. Non è la confessione di un diavolo e neppure l’apologia di un angelo. Chi vuole leggere la biografia di un uomo senza peccati ne deve scegliere un’altra, non la mia.”

In rappresentanza del Panathlon è intervenuta anche l’avvocatessa Elena Betteghella, nostra collaboratrice, vicepresidente del club mantovano intitolato a Tazio Nuvolari e Learco Guerra, portando ad Alex Schwazer e a Sandro Donati la testimonianza di stima e di solidarietà da parte di un ente come quello panathletico che all’interno del CIO, il Comitato Olimpico internazionale, ha la delega per le iniziative di cultura sportiva e di fair play. Accanto a lei anche il delegato del Coni prof. Giuseppe Faugiana.

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