Direttore tecnico per più di 15 anni dei corsi decentrati di Verona dell’ISEF pareggiato di Bologna fino alla trasformazione del diploma ISEF (diploma di istruzione superiore di grado universitario) in laurea in Scienze motorie e alla trasformazione dei corsi ISEF veronesi in Facoltà universitaria (ciò avvenne nell’anno accademico 1999-2000 in base alla legge 15/5/97 numero 127).

Un prezioso documento del 2010, in cui il Prof. Walter Bragagnolo e il Prof. Alberto Ambrosio vengono intervistati dal giornalista Adalberto Scemma

Ottimo esempio della transizione dalla cultura motoria costruita in primo luogo con la sperimentazione sul campo alla cultura integrata con la ricerca scientifica universitaria.

A Walter Bragagnolo è stata intitolata l’Aula Magna di Scienze Motorie dell’Università di Verona.

A Walter Bragagnolo è stato dedicato un libro:

IL PROFE CHE INSEGNAVA A SBAGLIARE

Libro uscito nel 2020, a cura di Adalberto Scemma, con il patrocinio del Panathlon Club Gianni Brera Università di Verona e con il contributo di quasi ottanta testimonianze. Ne abbiamo selezionato alcune, a nostro parere particolarmente importanti e significative.

NOTA del curatore del libro:

La presenza di Walter Bragagnolo ha lasciato tracce significative sia nel mondo della scuola, attraverso la creazione dell’ISEF di Verona e la configuzione dei corsi e dei programmi della Facoltà di Scienze motorie, sia nel mondo dello sport, vissuto attraverso una vasta gamma di implicazioni. Altrettanto significativo è apparso tuttavia il contributo che Bragagnolo ha offerto sotto il profilo etico nel corso della sua attività di studioso.. Ci è sembrato così doveroso ricordarlo attraverso gli interventi dei docenti con cui ha condiviso l’iter accademico, il prof. Federico Schena, autore della prefazione, e il prof. Carlo Morandi, coinvolgendo anche le istituzioni che ne hanno assecondato l’inesauribile spinta vitale: il Comune di Villafranca, amatissima città natale e suo «inalienabile» luogo della memoria, il Comune di Verona, puntuale parte attiva di ogni iniziativa di carattere sociale, e il Governatore del Panathlon International Area 1, cui Bragagnolo ha con entusiasmo nella veste di socio fondatore del Panathlon Club Brera Università di Verona.

PREFAZIONE di Federico Schena:

Laureato in Medicina e Chirurgia e specializzato in Medicina dello sport. Dottoredi ricerca in Fisiologia.
Professore ordinario di Metodi e Didattiche delle attività sportive  (M-EDF/02)
Delegato del Rettore per la Didattica e lo Sport 
Direttore Vicario del Dipartimento di Neuroscienze, Biomedicina e Movimento
Direttore del Centro interateneo di ricerca “Sport, Montagna e Salute”  –

Walter Bragagnolo è stato un pioniere delle Scienze rnotorie. Un provocatore. Un idealista. Un pratico. Un anti-cartesiano in una visione non meccanicistica della realtà effettuale. Un dualista per la ripresa, sulla scia del medico Jacques Monod, del binomio caso-necessità. Lo «stato di necessità», in cui spesso ci si trova, costituiva per lui uno dei presupposti dell’apprendimento motorio. Uno stare alla necessità di ciò che si è e si vive, da qui l’importanza del fattore esperienziale, per trovare con coscienza e intelligenza le adeguate risposte alle circostanze. Una visione situazionistica che costituisce «l’insieme degli aspetti e degli elementi che configurano la condizione attuale di un fatto» in cui ognuno è chiamato a una lettura, a una valutazione delle scelte motorie da adottare. L’esterno, l’ambiente, è quindi intrecciato con l’interno, ossia con il comportamento che è «la risposta motoria del soggetto alla situazione». Insieme all’apprendimento motorio, Bragagnolo ha anticipato altri temi diventati poi importanti nel campo delle scienze motorie. Ne accenno brevemente due. Innanzitutto, l’attività di ricerca nel campo del movimento umano, dalla cui disamina è scaturita l’ideazione del suo metodo M.A.E. (Metodo di Amplificazione dell’Errore). Il metodo si basa sul rafforzamento dell’errore: l’allenatore stimola l’atleta a prendere coscienza dell’inadeguatezza di un gesto motorio attraverso una accentuazione one quantitativa dell’errore. In questo modo il soggetto non si trova nella condizione di dover fare meglio ma in uno stato di necessità in cui è lui stesso a prendere consapevolezza della gestualità scorretta per porvi rimedio. L’allenatore si configura in questo modo come una guida responsabile dell’apprendimento, (di cui il protagonista è l’atleta nelle sue potenzialità.  aggettar su cui ha lavorato molto riguarda la tecnica come momento fondamentale della prestazione sportiva. Una tecnica appresa sia quantitativamente, con dedizione cii tempo, che qualitativamente e che, una volta imparata, sorge spontaneamente dando vita alla perfezione del gesto motorio da sviluppare. La teoria dell’allenamento e del movimento motorio è una scienza traslazionale, dove c’è un costante trasferimento di conoscenza scientifica sul campo. Non esiste pertanto una metodologia unica, ma una codificazione dei metodi di allenamento. Per questo parlavo di Bragagnolo come di un idealista pratico. In quanto ha saputo portare la teoria in campo: i risultati sportivi di molte atlete e atleti da lui allenati lo dimostrano. Pensare al campo, mi fa tornare alla memoria la pista di atletica che in gioventù è stata, per molti anni, la mia seconda casa. In quell’ambiente ho conosciuto per la prima volta Walter Bragagnolo nel suo ruolo di allenatore, di guida: quasi un mito irraggiungibile ín quanto lo vedevo seguire atleti di élite. Quando la passione per l’atletica si è associata allo studio e alla ricerca, allora, in quel momento, ai miei occhi di studente atleta, Walter è diventato un riferimento per confronti e discussioni importanti, nei quali spesso avevamo punti di vista diversi. lo legato ai meccanismi energetici, lui convinto della centralità delle neuroscienze sulla scia del pensiero di Bernstejn. È stato quasi naturale rincontrarlo appena laureato e, successivamente come assistente di Fisiologia umana all’Università di Verone mentre lui dirigeva l’Istituto Superiore di Educazione Fisica. Un ritrovarsi umano e intellettuale contrassegnato da enorme stima: esperienze di incontro investite di affezione, che mi auguro fosse reciproca. Le Scienze Motorie sono cambiate molto nel tempo. Ma ogni processo ha una sua genealogia. Bragagnolo ha avuto un ruolo attivo nella trasformazione dall’ISEF, di cui è stato direttore tecnico per oltre quindici anni, alle Scienze motorie universitarie, favorendo la creazione di un polo didattico-scientifico che oggi ha una straordinaria rilevanza. I temi che ha ripercorso nei suoi studi sono a pieno titolo argomenti di ricerca che continuiamo ad approfondire. C’è un’eredità culturale e professionale che, senza perdere l’educazione al movimento, ha aggiunto a questa finalità nuove e importanti ambiti di ricerca, in un confronto con il passato che è segno di riconoscenza. Anche per questo l’Aula Magna di Scienze motorie è diventata Aula Walter Bragagnolo.

Questo volume è una testimonianza dei suoi insegnamenti e della sua eredità.

AGLI ALBORI DI SCIENZE MOTORIE di Carlo Morandi

Carlo Morandi, biologo, è stato il primo presidente del corso di laurea in Scienze Motorie

e, in seguito, anche preside della Facoltà di Scienze Motorie

Il Profe, come lo chiamavano tutti, ha ispirato a livello nazionale la riforma che vide il suo ISEF trasformarsi in Scienze motorie. In quegli anni, quando ero preside di Facoltà, Walter mi fu di grande aiuto nel configurare i corsi e i programmi, facendo diventare da subito quella di Verona la Facoltà di Scienze motorie più importante a livello nazionale. Il ricordo che ho di Walter Bragagnolo è una testimonianza di stima ma anche di affetto perché il nostro rapporto di collaborazione, per tanti aspetti pionieristico, ha avuto modo di consolidarsi attraverso le tante difficoltà affrontate insieme. Se dicessi che la transizione da ISEF a Università è stata indolore, non sarei sincero, la storia non è mai semplice né lineare. Il grande merito di Walter risiede nel suo contributo all’elaborazione della traccia del Corso di laurea che sarebbe stato poi approvato dalla Facoltà di Medicina nel 1999. Il piano didattico del primo triennio lo scrivemmo a quattro mani: Walter curava i contenuti dei corsi, io mi occupavo dei crediti formativi universitari. Fin dall’inizio il Corso di laurea fu un successo, ricordo il suo entusiasmo nel mescolarsi agli studenti nei Corsi di scí a Canazei, di hockey a Bosco Chiesanuova, e poi ancora in quelli di vela sul Garda, corsi che rendevano questo percorso di laurea unico nel suo genere. Se oggi siamo ai primissimi posti in campo internazionale, lo dobbiamo anche a Walter Bragagnolo che ha saputo, quando era direttore dell’ISEF, gestire bene e con grande lungimiranzala scuola. Era una persona speciale, con alle spalle studi molto approfonditi e una spiccata personalità, che lo portava spesso a «vedere oltre». Amava sperimentare, era capace di affascinare quando parlava di biomeccanica, del sistema neuronale e immunologico ispirandosi agli studi di Edelman. Lo faceva con grande entusiasmo e sapeva comunicare questa passione a tutti, anche a chí non era propriamente della materia. La sua capacità e lungimiranza erano, nel campo della motricità, quasi avveniristiche: nella sua visione di unicità tra corpo e mente intuiva già quel meccanismo che anni dopo sarebbe stato individuato nella funzione dei neuroni a specchio. Il Corso di laurea in Scienze motorie veronese, nella considerazione del mondo accademico, è stato sotto tanti profili straordinario. Oggi figura nella Top Ten (all’ottavo posto!) dell’edizione 2018 della «Sport Science School and Depart-ments» presentata dall’Academic Ranking of World Universities (ARWU) dell’Università di Shanghai. Con questa posizione Verona è la prima tra le sedi di Scienze motorie italiane e si colloca vicino ai migliori centri europei e internazionali (Nord America e Australia in primis), mettendosi alle spalle atenei che hanno una lunga tradizione e una maggiore disponibilità di risorse economiche. ll ranking, utilizzando un raffinato sistema di indicatori, si focalizza sul sistema accademico tenendo in considerazione la qualità della docenza, della formazione e della ricerca attraverso il numero di pubblicazioni, la loro influenza e impatto scientifico. Questi studi nascono dal coordinamento tra la ricerca di base e quella applicata, la cui esplicita attuazione è l’essenza delle quotidiane attività scientifiche proposte nei vari laboratori di Scienze motorie. Se focalizzo l’attenzione sui successi di oggi non posso non riferirmi a quella che è stata una tappa fondamentale, la trasformazione dal vecchio ISEF al corso di laurea interfacoltà di Scienze motorie, che allora era condiviso con Scienze della Formazione e Medicina. Il grande merito di Walter Bragagnolo è stato quello di essersi speso con tutte le sue energie per realizzare un progetto che lo ha visto operare a livello nazionale, dando corpo a una riforma dalla struttura tutt’altro che semplice. Walter era anche un uomo di grandi passioni, di grandi amori e disamori. Quando il suo più grande desiderio — che i «suoi» docenti ISEF potessero diventare automaticamente professori universitari — non si realizzò, non ebbe remore a manifestare a tutti il suo grande disappunto. La Facoltà di Scienze motorie, nei primi tempi, poteva contare su undici docenti universitari soltanto, ai quali si sono poi affiancati docenti ISEF che hanno portato la propria esperienza multidisciplinare. Fín dall’inizio la Facoltà ha avuto l’obiettivo di aprirsi a tutto il territorio nazionale. Siamo arrivati a essere indicati da Alma Laurea come la Facoltà più importante per quanto riguarda le ricadute nel mondo lavorativo, con una percentuale di impiego dopo il primo anno di laurea superiore al 90%.

Ultimo, ma non meno importante, voglio ricordare il coraggio di Bragagnolo nel classificare come Scienza ciò che per molti colleghi di medicina altro non era, allora, che mera attività sportiva. Anche per questo gli siamo riconoscenti.

Introduzione: “Il fascino dell’Altrove” di Adalberto Scemma

Adalberto Scemma è docente di giornalismo e letteratura sportiva all’Università di Verona. Per molti anni è stato inviato speciale del quotidiano “L’Arena” e ha collaborato a testate nazionali e internazionali. Ha all’attivo numerosi libri per vari editori (Garzanti, Vallardi, Mursia, Limina-Fuorionda, ZeroTre). Dirige i “Quaderni dell’Arcimatto”, studi e testimonianze per Gianni Brera e il bimestrale di letteratura sportiva “La coda del drago”.

Se è vero che gli occhi sono lo specchio dell’anima, gli occhi di Walter avevano i neuroni incapsulati al cristallino. Un cristallino vivido, con mille sfumature iridescenti. Neuroni a specchio, naturalmente, come la lezione che impartiva senza che ti accorgessi che di lezione si trattava. Perché le parole ti precedevano o ti inseguivano, sempre a coglierti di sorpresa, e ogni argomento diventava un puzzle affascinante ma inestricabile. Così appariva. Ma lui, Walter Bragagnolo, era sempre nel territorio insondabile dell’Altrove. Con quella leggerezza, di pensiero e di tono, che lo somigliava al pifferaio magico di Hamelin, se la fiaba dei fratelli Grimm non avesse avuto un finale così raccapricciante (maggior sollievo nella leggenda da cui è tratta, dove i bambini, anziché sparire in mare dietro le note del pifferaio, entrano in una valle per dare origine alla saga dei Teutoni…).

Più tardi, molto più avanti nel tempo, le argomentazioni di Walter ti sarebbero piombate addosso con una nitidezza improvvisa, senza più filtri, dirette come una fionda di luce. E allora era una cascata di riflessioni a raggiera, sul movimento e sulla vita, sulla stasi e su quel paradosso in sospensione che si chiama tempo. Come se la biomeccanica, primo gradino di una lunga scala cognitiva, agevolasse il contatto tra il pensiero analitico e l’esperienza meditativa. Non è mai stato lontano dal vero chi ha intuito la relazione tra gli interrogativi dello Zen (inteso in questo caso nella sua accezione divulgativa, come un sistema neuromotorio non influenzabile dalla volontà) e le risposte della meccanica quantistica. E viceversa.

Di certo Walter, sulla scia di Edelman, ha innovato l’approccio alla conoscenza del movimento senza mai rassegnarsi a una frattura tra le due culture. Di qui l’analisi sulla struttura del cervello per arrivare alla definizione di coscienza «non come sostanza ma come processo». Di qui, infine, l’elaborazione di quel metodo neuronale-situazionale (M.A.E., method amplification error) che ha rivoluzionato di fatto, scardinando il dualismo cartesiano, tutte le teorie di stampo sovietico sulla periodizzazione del processo di allenamento.

Per noi neofiti, più goffi che imbranati (ego inter haec primus…), quello disegnato da Walter era l’inizio di un cammino talmente irto di complicanze da apparire, diciamolo pure, impraticabile. Prima di tutto perché contraddiceva esperienze personali ormai codificate, e poi perché interveniva sempre e comunque il sospetto della provocazione, quasi che l’obiettivo primario di Walter fosse proprio quello di togliere credibilità alle nostre fonti di conoscenza per mettere in discussione persino l’evidenza (o perlomeno ciò che tale appariva ai nostri occhi).

Non so fino a che punto Walter abbia sperimentato radici culturali di influenza orientaleggiante. Qualcosa in tal senso deve essere intervenuto se analizziamo la sua teoria sul «movimento volontario», alla base della vita ma soprattutto in sintonia con la vita stessa attraverso la coazione dei tre sistemi (nervoso, endocrino e immunitario) e dell’energia che li alimenta. L’immagine che ne risulta è quella di un «tutto» caratterizzato da un elemento fluido e continuamente mutevole. Ecco dunque il riferimento alla concezione dinamica del mondo nelle filosofie orientali, un mondo visto come una «realtà unica e indivisibile, in eterno movimento, quindi animata, organica, materiale e spirituale al tempo stesso».

Interveniva a questo punto il problema della corretta gestione dell’energia, importante per un individuo comune ma addirittura fondamentale per un atleta, teso a evitare traumi e a ottenere risultati con il più elevato risparmio energetico possibile. In che modo? Evitando di ricercare l’aumento dell’espressione di forza (metodologia quantitativa, votata inesorabilmente all’uso del doping) per rispettare la coazione costante dei tre sistemi fondamentali: quello nervoso per la possibilità di comparare gli elementi innovativi con i dati sensoriali già conosciuti; quello endocrino per l’erogazione dell’energia, e quello immunitario -dei tre il più significativo- per la sua mansione protettiva. Essenziale dunque la ricerca dell’equilibrio tra la percezione che il corpo riceve di volta in volta dall’ambiente esterno e la conoscenza di ciò che l’atleta ha appreso nelle precedenti situazioni di equilibrio dinamico.

Torna a proporsi, qui con maggiore forza, la necessità di saldare le due modalità di conoscenza: quella razionale, ricavata dall’esperienza quotidiana, votata quindi secondo la filosofia occidentale a «discriminare, dividere, confrontare, ordinare in categorie», e quella intuitiva, capace di liberare la mente da tali compressioni per agevolare uno stato di coscienza non ordinario, tipico delle filosofie orientali. Uno stato di coscienza, dunque, del tutto personale, proprio del singolo individuo e non ripetibile. Con un grado di attenzione, se la finalità è l’apprendimento, per forza di cose massimale.

In che modo si apprende? viene da chiedersi. Propiziando una sintesi, una saldatura, tra lo stato di coscienza e il cosiddetto stato di necessità. Perché se è vero che la conoscenza, in tutti i campi, avviene sempre e soltanto per confronto, è altrettanto vero che ciascun individuo utilizza coefficienti comparativi derivanti unicamente dalla propria esperienza. È dunque errato il criterio che impone a un soggetto autoreferente di utilizzare un modello («Devi fare così») che escluda la sua libertà di scelta. Appare invece corretto un intervento che consenta di ottemperare a quel bisogno di equilibrio tra la doppia percezione (interna ed esterna) che si attiva, appunto, in stato di necessità. Soltanto un’elevata esigenza di apprendimento, la necessità impellente di ricercare le più adeguate risposte motorie, permette all’individuo-atleta di far evolvere la propria motricità. Sarà dunque compito dell’allenatore intuire quale interruttore premere per agevolare il processo che porta a uno stato di coscienza non ordinario.

Sin qui il procedimento, per così dire, teorico-induttivo. Come passare, tuttavia, all’aspetto pratico? Ecco la fionda di luce cui ho fatto cenno in apertura con un’immagine non usuale. Perché in questa fase Walter ha avvertito l’esigenza di compiere un balzo creativo con una proposta dirompente (il metodo M.A.E., il metodo che impone l’amplificazione esasperata dell’errore) destinata a rivoluzionare i processi di apprendimento motorio convenzionali.  In sostanza: l’allenatore dovrà individuare l’elemento negativo principale di un gesto motorio compiuto dall’atleta e spingere quest’ultimo ad amplificare l’errore per porlo nello stato di necessità di riconoscerlo e annullarlo. Si produrrà così un confronto utile con un modello biomeccanico ideale che l’atleta autoreferente utilizzerà per procedere, attraverso le informazioni sensoriali acquisite, all’autocorrezione.

La verifica verrà attuata con modalità che chiamano in causa, come si diceva, lo stato di coscienza non ordinario. L’atleta dovrà essere indotto infatti a dimenticare la precedente proposta concentrando la propria attenzione soltanto sull’obiettivo da raggiungere. La sua volontà non dovrà interferire in alcun modo sui movimenti da attuare dando vita a quello che banalmente può essere inteso come una sospensione della conoscenza: i movimenti deriveranno soltanto da ciò che i sensi dell’atleta avranno autonomamente percepito. Se andiamo a considerare infine il modello ideale di un gesto motorio, ecco l’intervento della biomeccanica, che consente di confrontare «ciò che dovrebbe accadere» con «ciò che invece accade». Emergono quasi senza parere, per naturale associazione di idee, le connessioni tra il metodo M.A.E. e la filosofia Zen che nell’ipotesi di una prestazione atletica da fornire si affida non a caso a un principio basilare: una tecnica appresa deve essere dimenticata in modo tale da diventare tecnica non appresa, che sorge cioè dall’inconscio. È una condizione di inconsapevolezza (sospensione della conoscenza, appunto…) che viene raggiunta solo se l’atleta è perfettamente libero e distaccato da sé, se è tutt’uno con la perfezione del gesto motorio che deve sviluppare.

Ancora più sorprendente è la connessione tra lo Zen e lo stato di necessità che Walter ritiene imprescindibile per innescare il processo di apprendimento. Nel 788 d.C. Matsu ha dato questa definizione: «Lo Zen è la coscienza quotidiana». Che significa? Significa «dormire quando si è stanchi, mangiare quando si ha fame», tutte cose che impariamo a fare quando avvertiamo, appunto, la necessità di dormire e la necessità di mangiare. Non appena riflettiamo e formiamo concetti desunti dall’esperienza quotidiana, la mancanza di consapevolezza iniziale si disperde perché un pensiero ci riporta dall’Altrove alla realtà contingente.

Non è casuale il fatto che l’uomo abbia realizzato le proprie opere più significative quando è riuscito ad astrarsi, quando non ha calcolato e non ha pensato, quando ha dimenticato sé stesso. L’«eureka» di Archimede o la «mela» di Newton, o l’«infinito» di Leopardi, rappresentano gli esempi più banalmente proponibili.

«L’astrazione – sottolinea Fritjof Capra, autore de «Il Tao della fisica» – è una caratteristica tipica di questa conoscenza perché per poter confrontare e classificare l’immensa varietà di forme, di strutture e di fenomeni che ci circondano, non si possono prendere in considerazione tutti gli aspetti ma se ne devono scegliere solo alcuni significativi». Nessuna differenza sostanziale, come si vede, con il modello ideale di un gesto motorio ipotizzato da Walter allorché la biomeccanica interviene per confrontare «ciò che dovrebbe accadere» con «ciò che invece accade».

Tra le tantissime testimonianze, ne abbiamo scelta una che a nostro parere è particolarmente significativa, intitolata

Parola d’ordine: no limits”di Chiara Milanese

Diplomata ISEF, Professore associato presso Università degli Studi di Verona, Dipartimento di Neuroscienze, biomedicina e movimento, Chiara Milanese è stata per molti anni al fianco di Walter Bragagnolo nell’attività di ricerca nel campo delle scienze dello sport. Attualmente si occupa in particolare dello studio delle caratteristiche antropometriche e della composizione corporea oltre che della loro relazione con l’attività fisica e la prestazione sportiva in atleti normodotati e atleti con disabilità fisica, nonché in popolazioni con malattie croniche (ad esempio obesità, anoressia nervosa, osteoporosi). Un’altra area di interesse è relativa all’apprendimento motorio, con particolare attenzione all’esplorazione dell’efficacia di diverse strategie di apprendimento per migliorare le abilità motorie negli atleti di differenti livelli di abilità. Nello specifico, ha indagato l’efficacia di una strategia nata da un’intuizione del prof. Walter Bragagnolo, conosciuta come «Metodo dell’amplificazione dell’errore» (M.A.E.). Gli studi sono stati pubblicati in convegni e riviste di livello internazionale. Pubblichiamo qui l’intervento che l’ha vista protagonista della prolusione in occasione dell’intitolazione a Walter Bragagnolo dell’Aula Magna di Scienze motorie a Verona.

Buongiorno. È molto bello vedervi così numerosi. Ringrazio il prof. Federico Schena che è stato il promotore di questo evento e tutte le persone che con entusiasmo si sono adoperate per l’organizzazione. È una gioia per me, assieme a voi, rendere onore a Walter Bragagnolo, un grande e carismatico professionista e soprattutto un grande uomo, un esempio di sensibilità e disponibilità. Un uomo che ha dedicato la sua vita allo sport e alla ricerca lasciando un segno indelebile.

Alcune tappe: nel 1974 è stato il fondatore dell’ISEF di Verona e contemporaneamente docente di biomeccanica, atletica leggera e teoria dell’allenamento nello stesso all’ISEF e insegnate di educazione fisica nella scuola media di secondo grado. Nel 1983 è diventato direttore tecnico dell’ISEF di Verona e qui è rimasto fino al 1999 quando c’è stata la trasformazione da ISEF in Scienze motorie, trasformazione di cui è stato a sua volta il promotore.

Com’era Walter Bragagnolo? Era intuitivo prima di tutto. Era innovativo, sempre un passo avanti, quasi avveniristico: il «Mago» lo chiamavano, con accezione sia positiva sia negativa. Era rivoluzionario. Ma per tutti era semplicemente il Profe.

A mio avviso non è possibile scindere la sua attività di studioso e ricercatore da quella di allenatore. Credo sia stato un grande allenatore perché era innanzitutto un assiduo e instancabile studioso, motivato dalla passione,mai dal denaro, e ciò lo rendeva un uomo libero. Di questo lui andava fiero.

La sua forza era insita nel fatto che non si poneva limiti. Era curioso come pochi. Si schermiva dicendo che era colpa del suo naso pronunciato, «un naso che mi porta a fiutare cose sempre nuove!».

Era un uomo di grande cultura e competenza in tutti gli sport. Spaziava dall’atletica leggera al rugby, allo sci, al calcio, alla canoa, al golf e altro. Negli anni sessanta costituì la Società Scaligera di pesistica assieme a Raul Adami e Mario Farinati, nel 1966 costituì la società di atletica leggera femminile Scala Azzurra di cui era anche l’allenatore.

Il Profe aveva sempre risposte pronte e precise per qualsiasi problematica legata al movimento. e non esitava mai a esternare con forza le proprie idee. Ricordo che negli anni Settanta fu uno dei primi ad attaccare il dualismo cartesiano e la teoria, di stampo sovietico, sulla periodizzazione del processo di allenamento.

Il Profe era esperto soprattutto di biomeccanica ed apprendimento motorio. Con lui si studiava di pomeriggio, o di sera dopo cena, e il giorno dopo si sperimentava in campo con gli atleti. Ma non solo: si sperimentava anche durante le esercitazioni di atletica leggera al corso ISEF…

Dava molta importanza alla modalità di esecuzione del gesto motorio al fine di salvaguardare le strutture osteoarticolari e muscolari dell’atleta. Nei suoi studi di biomeccanica sul gesto sportivo e nei suoi programmi di allenamento metteva sempre al primo posto l’incolumità dell’atleta e poi il miglioramento della prestazione.

Non a caso gli atleti che ha allenato, oltre ad essere stati dei grandi atleti che hanno onorato l’Italia anche alle Olimpiadi, hanno avuto tutti una carriera agonistica longeva. Con lui ho trascorso pomeriggi interi, per anni, a studiare il gesto sportivo e a creare, come li definiva lui, i modelli ideali dell’osservatore (cioè quel modello che rappresenta le azioni più efficaci e meno pericolose per le strutture dell’atleta).

Non avevamo a disposizione strumenti sofisticati, solo carta e penna. Si studiava il gesto sportivo applicando i principi della meccanica; si disegnavano a mano libera i momenti di forza agenti sui segmenti corporei per identificare un ideale ordine di intervento delle azioni segmentarie, per identificare la leva più efficace per quel dato movimento, per individuare le situazioni di disequilibrio e per verificare come queste potessero essere controllate e compensate.

Non sempre ero d’accordo con il suo punto di vista. Si discuteva e ci si confrontava in modo costruttivo e tutto il lavoro che abbiamo fatto ha portato alla pubblicazione di tre libri: sul passo di corsa, sul passaggio dell’ostacolo e sul salto in alto. Non era esperto solo di atletica leggera. Ha pubblicato infatti due libri sullo studio del gesto tecnico e delle dinamiche del gioco del calcio assieme ai professori Marco Gaburro, Gabriella Facci e Paolo Romagnoli. Uno dei due libri, («Dentro il gioco», pubblicato nel 2004, vinse il primo premio letterario CONI 2005 per la sezione tecnica.

Oltre ad essere esperto di biomeccanica, il Profe era esperto anche di apprendimento motorio. Sosteneva che per comprendere bene il processo di apprendimento era necessario conoscere le radici biologiche della conoscenza e quindi studiava i libri di Maturana e Varela(«L’albero della conoscenza») e Morin(«La conoscenza della conoscenza»).

Era interessato alle neuroscienze:libri di von Braitenberg («I tessuti intelligenti»; «Il cervello e le idee»),libri di Edelman, Premio Nobel per la fisiologia e la medicina («Sulla materia della mente»). Ispirandosi a questi studi, nel 1993 ha pubblicato un libro dal titolo:«Apprendimento e ridimensionamento motorio», scritto assieme ai professori Paola Cesari, Gabriella Facci e Paolo Olivato.In questo libro viene spiegata la teoria dell’apprendimento motorio attraverso il confronto e viene sperimentata una strategia per la correzione dell’errore tecnico, ideata dal Profe e conosciuta come Metodo dell’amplificazione dell’errore (M.A.E.).

Fu rivoluzionaria la sua teoria secondo la quale un errore forzatamente amplificato fa migliorare il pattern motorio. L’idea del Profe era che la prova amplificata mette l’atleta nello stato di necessità di trovare autonomamente una soluzione motoria migliore e meno pericolosa per le sue strutture.

Un’altra idea rivoluzionaria del Profe è quella sull’errore primario. Il M.A.E. è efficace solo se l’allenatore è abile a diagnosticare correttamente l’errore primario. Un atleta può presentare più errori durante l’esecuzione di un movimento ma uno solo di questi errori è la causa del problema, gli altri errori sono solo degli aggiustamenti.  È nella fase di diagnosi dell’errore che il modello ideale dell’osservatore assume un ruolo fondamentale in quanto strumento utile all’allenatore nel compito ostico di identificazione dell’errore primario.

Il Profe mi ha incoraggiata a studiare con rigore scientifico la sua teoria sull’errore primario e sul metodo M.A.E. in differenti sport e con atleti di differente livello di abilità. Gli studi che ho condotto in questi ultimi anni hanno portato a pubblicazioni di più articoli scientifici e quindi alla divulgazione a livello internazionale delle procedure del M.A.E. e della sua efficacia. I risultati hanno confermato le teorie e le intuizioni del Profe.

L’attività di Bragagnolo non si è limitata a quella di studioso e di allenatore. Negli anni in cui è stato direttore tecnico è riuscito a ottenere ingenti finanziamenti per ampliare le strutture dell’ISEF, con nuove palestre che tutt’oggi vengono utilizzate, e con un laboratorio di biomeccanica. Negli anni 90 l’ISEF di Verona era l’unico ISEF in Italia ad avere un laboratorio dotato di un sistema E.L.I.T.E di analisi cinematica tridimensionale e pedane di forza per l’analisi cinetica.

È riduttivo definire il Profe un grande maestro, lui è stato un mentore! Ci sarà sempre un po’ di lui in me e, credo, in tutte le persone che hanno avuto la fortuna di conoscerlo, di collaborare con lui e di condividere le sue idee. Lo saluto con una espressione che il Profe usava spesso: «Ci intendiamo con gli occhi!».

Un cenacolo illuministico” di Paolo Romagnoli

(Nella foto Paolo Romagnoli con Walter Bragagnolo)

Diplomato ISEF, docente nei corsi ISEF di Verona, Paolo Romagnoli è stato campione italiano di Bob e nazionale di Decathlon. Assieme a Walter Bragagnolo e a Marco Gaburro ha scritto il libro Ritorno alla prassi, poi il libro Dentro il Gioco – Comportamenti e gestualità: una innovativa metodologia analitica dei comportamenti riscontrabili nel calciatore. Il libro ha vinto nel 2005 il 1° Premio letterario CONI – Sezione Tecnica.

Siamo ancora tanti noi discepoli, persone che sono state incantate dalle sue parole e dal suo modo di fare, Walter ha tracciato un solco molto profondo nello studio, nella ricerca e nell’applicazione della metodologia dell’allenamento, solco che troppo spesso è stato scavato su terreno arido che non gli ha permesso di raccogliere tutti i frutti del proprio genio e delle proprie intuizioni. Ha sempre messo la persona al centro dell’attenzione, concependo  allenamenti da inventare in base alle necessità soggettive e rifiutando di stilare anonime tabelle fatte solo di serie ripetute e di tempi.

La non trasmissibilità dell’esperienza è stato uno dei concetti che ha innescato l’evoluzione metodologica moderna. La sua passione per la conoscenza e l’approfondimento lo portò ad elaborare il M.A.E. o “metodo dell’amplificazione dell’errore”, che permette rapidi ed efficaci miglioramenti dei comportamenti motori: le modificazioni avvengono grazie a un miglioramento della conoscenza o, meglio ancora, grazie ad un riconoscimento dell’errore (l’adattamento fisiologico è solo successivo). Un vero scienziato controcorrente, mai domo, mai sazio di sapere, sempre curioso di sperimentare, conoscere e riconoscere i comportamenti sportivi per poter consigliare e migliorare i risultati di corridori, saltatori, lanciatori, calciatori, pallavolisti, sciatori, rugbisti, nuotatori, …

Ricordo, alla fine degli anni Settanta, l’elaborazione della tecnica di salto alto in alto che riguardava i saltatori provenienti dallo stile  ventrale rispetto a quella dei saltatori che utilizzavano il “Fosbury Flop”.

Nel ’68, quando vinse le Olimpiadi di Città del Messico, Dick Fosbury saltava chiudendo l’angolo al ginocchio dell’arto libero, cosa difficile per tanti saltatori ventralisti chee erano abituati a calciare l’arto libero. Walter osservò la differenza che esisteva tra i saltatori che provenivano dal ventrale e quelli che imparavano direttamente il «Fosbury» classificando i salti classici col nome di Flop 1 e quello degli ex ventralisti col nome di Flop 2, chiaramente indirizzando il proprio insegnamento verso ii Flop 1.

 Tra le tante cose che ho ammirato di Walter, una in particolare si imponeva: per i suoi allenamenti non ha mai chiesto né un compenso né un rimborso qualsiasi. La sua soddisfazione maggiore era rappresentata dalla divulgazione delle idee, delle novità del momento, perché, a differenza di tanti allenatori attuali, le idee, le conoscenze, le teorie, i metodi cambiano e non si possono avere risultati efficaci con metodi sorpassati da decenni. Abbiamo iniziato studiando e divulgando Zatsiorskij ma, stando sempre sul pezzo e leggendo come evolvevano le situazioni culturali e politiche del periodo, abbiamo finito ben presto per criticarlo quando ci siamo accorti che la periodizzazione elaborata da Harre, Meinel e Schnabel era stata predisposta dai ricercatori della DDR esclusivamente per giustificare l’assunzione di doping e affermare il predominio dei loro atleti in ambito sportivo. Siamo così arrivati a Gerald Edelman: Sulla materia della mente è stato un libro che ha segnato una svolta profonda nelle idee di Walter.

“Siamo composti da tre sistemi: il nervoso, l’immunitario e l’endocrino e regolati da essi in coazione…” queste le parole che aprivano da tempo le sue discussioni ed era un piacere ascoltarlo.

 Ho avuto l’onore e il privilegio di scrivere insieme a Walter due libri: Ritorno alla Prassi e Dentro il Gioco (con noi anche Gaburro), rispettivamente nel 2002 e nel 2004 e nel 2005. Dentro il Gioco ha vinto il primo premio al 39° concorso letterario CONI, sezione Tecnica. Ho condiviso circa quarant’anni con Walter Bragagnolo, sono stato suo assistente per vent’anni all’ISEF, suo atleta e suo coautore; è stato l’unico allenatore al quale ho permesso di allenare mio figlio, è stato mio testimone di nozze, grande amico e mio padre culturale. Io e un nutrito gruppo di persone tra cui moltissimi allievi ed allieve gli saremo perennemente grati per quello che ci ha regalato: i modi, il tempo e la profondità delle sue idee. Se qualcosa è veramente cambiato nello sport negli ultimi anni questo è dovuto a Walter e noi, che abbiamo avuto la fortuna di poter condividere con lui il tempo e l’affetto, gliene siamo profondamente grati. Grazie Profe!

Quella mappa neuronale” di Adelio Diamante

(nella foto: Bragagnolo e Diamante)

Diplomato ISEF. Adelio Diamante ha vestito la maglia azzurra nel mezzofondo veloce vincendo otto titoli italiani su varie distanze e stabilendo tre primati nazionali giovanili sugli 800, sui 1000 e sui 1500 metri. Ha collaborato con il prof. Bragagnolo come suo assistente all’Isef di Verona, operando poi come docente di biomeccanica applicata all’atletica leggera dal 1985 al 1992. Nel calcio è stato preparatore atletico di numerose squadre di vertice con Francesco Guidolin (Atalanta, Vicenza, Udinese, Bologna, Palermo, Monaco e Parma tra le altre).

La mia attività in atletica è iniziata a scuola, in seconda superiore con le corse campestri provinciali studentesche vinte nella categoria allievi e poi l’anno successivo nella categoria juniores come rappresentante dell’I.T.C.G. «Minghetti» di Legnago sotto la guida del prof. Carlo Braggio. La Bentegodi, visti i risultati della campestre, mi chiese di tesserarmi e di partecipare alle gare provinciali allievi dei 1000 e 2000 metri che vinsi.

Il mio primo allenatore della Bentegodi fu il prof. Italo Chiavico che ricordo caramente come figura paterna e persona molto disponibile oltre che per la sensibilità di proporre allenamenti rispettando la progressività dei lavori sia nella quantità sia nell’intensità.

Nella categoria juniores passai sotto le cure dell’allenatore Angelo Tagliapietra che ricordo per la competenza, l’esperienza e la motivazione che trasmetteva ai suoi atleti. Sotto la sua guida il 10 ottobre del 1970 feci il record italiano dei 1000 metri juniores in 2’25” strappandolo proprio a lui che lo deteneva con il tempo di 2’26” e credo che per un allenatore questa sia stata una grandissima soddisfazione nel vedere il proprio atleta superare il maestro. Nello stesso anno feci la prima esperienza in Nazionale juniores unitamente ad altri compagni della Bentegodi.

Nel settembre 1970 mi vide in allenamento allo stadio Bentegodi il presidente del Verona Garonzi mentre facevo ripetute di velocità sugli 80 metri. Egli chiese al nostro segretario della Bentegodi chi era quel ragazzo che andava così veloce e saputo che giocavo a calcio nella squadra dell’Aurora Veronella mi propose di fare un provino. Gentilmente rifiutai perché l’atletica mi era già entrata nel cuore e comunque, vedendo la bassa intensità con cui si allenava la squadra di calcio, pensai che un giorno mi sarebbe piaciuto fare il preparatore atletico dell’Hellas Verona. Tale aspirazione ebbe un seguito quando Bagnoli mi chiese di affiancarlo nella preparazione del campionato 1988-89.

Nel 1971 entrai a far parte del gruppo sportivo dei Carabinieri Bologna frequentando nel frattempo l’ISEF dove mi diplomai con lode nel 1974. L’allenatore del gruppo sportivo Carabinieri era il prof. Luciano Gigliotti, grande motivatore, il quale iniziò ad aumentare il numero e il volume degli allenamenti che dovevo sostenere seguendo le metodiche del marathon training passando poi nel periodo primavera-estate a lavori più specifici per gli 800 e 1500 metri. Durante il periodo 1971-1974 feci il record personale (1’49”2 sugli 800), vinsi i 1500 nel 1973 ai Campionati Italiani indoor, conquistai vari titoli e battei record italiani di staffetta 4×1500.

Nel 1974, terminato il periodo con il gruppo sportivo Carabinieri, decisi di farmi seguire negli allenamenti a Verona dal prof. Walter Bragagnolo. La scelta fu dettata dal fatto che intravvedevo nel Profe un intuito geniale e una persona che non seguiva pedissequamente le mode o il copia-incolla per le proposte di allenamento. Le sue scelte erano basate sullo studio del funzionamento del sistema nervoso per cui se si voleva ottenere un certo risultato, bisognava allenarsi utilizzando una mappa neuronale adeguata alle esigenze.

Grande studioso della biomeccanica e promulgatore del metodo MAE per migliorare il gesto sportivo delle specialità tecniche e di squadra, sul mezzofondo Bragagnolo aveva anche l’umiltà di confrontarsi e consigliarsi con il prof. Franco Colle di Udine dove ci recavamo talvolta per allenamenti di controllo. L’allenamento era basato sulla qualità e il ricordo maggiore che ho è quello che riguarda la tecnica di corsa che era migliorata poiché la mappa neuronale che utilizzavo era quella confacente all’obiettivo.

Sotto la guida di Bragagnolo ho stabilito nel 1976 il mio record personale a Parigi in 3’41”7 vincendo la gara.  Nel 1977 vinsi i 1500 metri ai Campionati Internazionali indoor a Milano e il ricordo che ho di quella gara è che tra i 900 e i 1300 metri subentrò una «trance agonistica» che mi permise di correre apparentemente senza consumare energie. Poi la campana dell’ultimo giro mi risvegliò permettendomi di sprintare superando un atleta greco e il belga Herman Mignon semifinalista alle Olimpiadi di Montreal 1976.

A gennaio del 1985 il direttore sportivo dell’Hellas Verona Emiliano Mascetti chiese a Bragagnolo chi potesse suggerirgli come preparatore atletico per il recupero e ri-allenamento condizionale dei giocatori reduci da un infortunio. Il Profe suggerì il mio nome poiché facevo il preparatore-giocatore in squadre dilettantistiche della provincia. Con i suoi preziosi consigli feci un ottimo lavoro e ricordo con piacere un commento di Preben Elkjaer, «Cavallo pazzo», che disse durante il recupero per un infortunio al legamento collaterale del ginocchio: «Tu lavori con la testa». Un altro buon risultato fu ottenuto con Fabio Marangon che giocò la prima partita ufficiale dopo quattro mesi dall’intervento al legamento crociato anteriore del ginocchio.

Il Profe, direttore dell’ISEF a Verona e titolare della cattedra di atletica leggera, nell’anno accademico 1985-86 mi chiese di fare l’assistente per l’insegnamento di biomeccanica applicata alle specialità dell’atletica leggera. Tale impegno di studio e ricerca, che terminò nel 1992 per dedicarmi alla professione di preparatore atletico di calcio, segnò profondamente il resto della mia vita lavorativa.

Il controllo biomeccanico-posturale dei giocatori era fondamentale per prevenire infortuni unitamente al riconoscimento del non corretto joint-play e relativo ripristino funzionale.

Walter Bragagnolo aveva intuito già da molti anni che il gesto sportivo ottimale poteva realizzarsi se tutto l’apparato biomeccanico dell’atleta era in asse. Persona sempre curiosa e attenta alle proposte manipolative mi fece conoscere un chiropratico, Benito Battistig, persona abile e competente al quale si rivolgeva per le sue atlete. In seguito divenne il mio primo maestro in questa disciplina.

In conclusione il Profe era persona molto generosa e geniale. Gli devo molto in termine di conoscenza e stimolo a far sempre meglio. Il ricordo più bello che ho riguarda la capacità di dare grande fiducia alle persone valorizzandole e traendo il meglio da tutti quelli che hanno lavorato con lui.

L’intelligenza che si diverte” di Alberto Ambrosio

Diplomato ISEF, Alberto Ambrosio è stato docente a contratto  per l’insegnamento dell’Atletica Leggera (elementi di biomeccanica applicati) presso l’Istituto Superiore di Educazione Fisica di Bologna – sede di Verona dal 1985 al 1990 e docente a contratto, anno accademico 2013/14, per l’insegnamento di Metodi e didattiche delle attività motorie nel corso di laurea in Educazione Professionale, dipartimento di SCIENZE CLINICHE E SPERIMENTALI, Università degli studi di Brescia. Assistente del prof. Bragagnolo all’Isef di Verona, ha operato come responsabile della preparazione in squadre di calcio (Brescia, Piacenza, Parma e Sampdoria tra le altre) e di rugby (Calvisano). Tra i suoi libri “Il riallineamento della prestazione dopo un infortunio”

Fu il fiuto che accentuava la sua curiosità a favorire il nostro incontro: «E’ per il naso lungo che ho», si scherniva il Profe. «Stay hungry, stay foolish», fui affascinato dalla sua fame di imparare e scoprire ma anche dalla sua follia visionaria che fu tale da avvalorare audaci teorie, quasi sempre azzeccate.
Nel 1973 dopo un viaggio negli USA organizzato dall’ISEF di Milano Lombardia fui invitato a scrivere un articolo per l’ATAL (Associazione tecnici di atletica leggera). Con mia grande sorpresa, dopo pochi giorni venne pubblicato da «La Gazzetta dello Sport». Nell’articolo parlavo della mia visita in varie Università americane e del copioso materiale raccolto. In quel periodo in collaborazione con un altro giovane tecnico, il prof. Silvano Mombelli, che era allievo di Bragagnolo e frequentava il Libero ISEF di Verona, avevo fondato un Centro Studi bibliografici raccogliendo traduzioni dalle più note riviste mondiali nel settore della teoria dell’allenamento tra le quali la prestigiosa sovietica «Legkaya Atletika». Fu facile stabilire un contatto e il fiuto del Profe fu determinante nell’incoraggiarci a proseguire nell’iniziativa che qualcuno, in ambito federale, definiva «incosciente e frutto di giovanile e baldanzoso entusiasmo». Il contributo del Profe fu determinante anche nello scremare la mole incredibile di materiale che dovevamo visionare. Mi accorsi subito della sua incredibile capacità di sintesi, di cogliere l’essenziale e di semplificare rendendoli fruibili per tutti, anche i contenuti più complessi. La sua analisi biomeccanica del «Fosbury» ha fatto scuola.
Ci scambiammo parecchio materiale, mi ricordo in particolare una traduzione da «Legkaya Atletika» di J.Werchoshanskij e G. Tschjornoussow («I balzi nell’allenamento dei velocisti»). Il Profe ne parlò con entusiasmo a un incontro federale con alcuni allenatori esibendo il lavoro; poco tempo dopo un noto tecnico specialista della maratona pubblicò la traduzione con il proprio nome. Ero letteralmente indignato per quella che consideravo una scorrettezza. Bragagnolo mi blandì con una delle sue storiche massime: «Il mondo è diviso in due categorie di persone, quelli che tengono le corna e quelli che mungono, noi teniamo le corna».
Ci sarebbero ancora molti episodi da raccontare che hanno scandito la mia crescita professionale arricchita dalla sua conoscenza. Nei momenti di sconforto con il rischio di appiattimento culturale bastava un colloquio con lui per ottenere l’effetto di una scarica di adrenalina, l’intonazione fisica e mentale per una nuova impresa. In ordine sparso ricordo il lavoro sulla regolazione delle condizioni emozionali e l’allenamento mentale con la dottoressa Annamaria Rocco, specialista in neuropsichiatria, e Crescenzio Marchetti triplista da 16.25 metri, i primi sofferti passi del laboratorio di biomeccanica dell’Università di Verona, le discussioni che si protraevano fino a tarda notte sul ruolo dell’attività neuronale nella formazione del movimento arricchite dai suoi contatti con Singer, Stelmach, von Breitenberg fino a Edelman.
Poi venne il calcio. Il mio interesse per la preparazione atletica dei calciatori iniziò nella seconda metà degli anni 80 quando fui chiamato a collaborare con la squadra Primavera del Brescia Calcio. Nello stesso periodo Bragagnolo teneva per il quotidiano «L’Arena» una curiosa rubrica che si può definire la prima forma di scouting nel calcio. La nota interessante delle sue analisi era in controtendenza con le metodologie di allenamento di quei tempi: non veniva valutata la quantità del lavoro svolto da una squadra o da un giocatore in un match ma la qualità dei passaggi, tiri, dribbling, sprint ed altri parametri con finalizzazione positiva.
Quella filosofia di training mi accompagnò per tutta la carriera professionale, quando la maggior parte delle squadre si basava sulla quantità di metri percorsi in gara. Con Gigi Cagni fondavamo il lavoro sulla densità di «stressors» nell’unità di tempo che si traduceva in sedute di allenamento ad elevata intensità in tempi di permanenza sul campo ridotti. Fu così che nacque il miracolo Piacenza, dalla C alla A con «undici piccoli indiani» da una citazione del «Corriere della Sera».
Tra le varie strategie messe in atto per sollecitare lo stress ricordo l’accorgimento escogitato con la complicità di Nicola Pinotti, l’allenatore dei portieri. Massimo Taibi era un giovane promettente portiere dotato di qualità ma incline alla distrazione nel corso degli allenamenti di routine. Per ovviare a questi cali di tensione Pinotti faceva trasferire la porta sotto il settore occupato dai tifosi che assistevano alla seduta bombardando letteralmente Taibi il quale volava da un palo all’altro osannato dal pubblico con il risultato di incrementare a livelli impensabili l’indice di rendimento.
Gli anni di Piacenza furono un vero e proprio laboratorio di sperimentazioni metodologiche; l’allenamento con i paracadute, complice Adalberto Scemma che fu il primo a diffondere la notizia, rappresenta un passaggio ineluttabile e didascalico. Un allenamento fuori copione per alcuni folkloristico, per altri un facile spunto per l’ironia «per ammorbidire l’atterraggio- dicevano- in serie B». Ricordo ancora una pagina del «La Gazzetta dello Sport» che ritraeva Simone Inzaghi con un primo prototipo di paracadute agganciato alla vita. Ero perfettamente consapevole del fatto che questa tipologia di lavoro aveva scarsa correlazione con le richieste condizionali della prestazione nel calcio: mi serviva il paracadute per incrementare l’attenzione e la spinta motivazionale dei giocatori nel periodo di preparazione. Discutendo con Bragagnolo ci accorgemmo che in realtà quell’attrezzo sottendeva un interessante contenuto legato alla sua teoria, il M.A.E.: il paracadute infatti modificava l’assetto e la componente coordinativa amplificando gli errori della corsa e inducendo di conseguenza, per confronto, un sensibile miglioramento del rendimento.
A proposito del metodo di amplificazione dell’errore vorrei ricordare un aneddoto; quando il Profe aveva già superato gli ottant’anni. Fui invitato da Adalberto Scemma in tivù a discutere con lui della teoria e delle sue possibili applicazioni: Bragagnolo spiegò, nei tempi televisivi, l’argomento con tale chiarezza e lucidità che persino i cameramen al termine del programma lo intrattennero chiedendo, incuriositi, ulteriori spiegazioni.
Per concludere, evitando di scivolare nella retorica, sono certo che Luciano Zerbini, nella sua testimonianza, avrà citato la famosa frase che lo definì prima dell’impresa di Los Angeles ’84: «un pazzo allenato da un folle». La follia del prof. Walter Bragagnolo era semplicemente creatività, quella creatività che qualcuno (Albert Einstein!) ha definito come «l’intelligenza che si diverte».

Il metodo e la passione” di Sara Fael

Sara Fael è presidente dell’associazione culturale ‘Pedagogia, Psicologia, Arte, Simboli e Inconscio Infantile’. Pedagogista, psicomotricista specializzata in Psicologia dell’Immaginario e riabilitatrice dei Disturbi dell’Apprendimento, è scrittrice di psicofavole per bambini

Non ricordo quando è nata la nostra amicizia e collaborazione. Sentivo parlare di lui quando ero responsabile del «Servizio di formazione e psicomotricità del Comune di Verona» ma il nostro primo incontro si è perso nella nebbia del tempo, forse perché nel mio pensiero lo conoscevo da sempre.

          Walter era un’autorità per me. La sua grande passione per il movimento e per la rieducazione lo hanno spinto a curiosità per il mio operare, il che ci ha consentito da subito un «sentire insieme», una situazione di affinità e capacità di condividere i sogni da raggiungere per i soggetti in difficoltà da accompagnare in un percorso evolutivo.

          Ricordo il primo caso che è venuto a verificare, quando lavoravo alla Casa di cura Perbellini. Si trattava di un bambino cerebroleso di sei anni. Quando me lo hanno portato stava ripiegato su sé stesso come una marionetta senza fili. Non riusciva neanche a reggere la testa ma aveva nella voce un’energia che mi ha colpito.

          Walter si era seduto per assistere. Il bambino era stato posto dalla madre per terra, sul tappeto, vicino allo specchio, pensando che facessi degli esercizi da stesi come in terapie precedenti. A un certo punto entrò un bambino per sbaglio, perché doveva essere visitato da un medico nella stanza successiva e, vedendo l’altro bambino sul tappeto, chiese stupito: «Wow, ma si è rotto?». E io, per fare la spiritosa, risposi: «Adesso lo aggiustiamo!». Così ho pensato di mostrare a quel bambino il fascino del mondo. Lo ho sistemato su una poltroncina, contornato da cuscini colorati, e sul tavolo che ci divideva hanno cominciato a prendere vita dei personaggi che io animavo e muovevo secondo la trama di una storia così assurda e buffa che Walter e il bambino scoppiarono a vivere.

          Piano piano, nel corso delle sedute, preso dalla magia degli accadimenti delle storie, il bambino cominciò gradualmente ad alzare la testa, a coordinare lo sguardo seguendo i personaggi, ad allungare la mano per raggiungerli e afferrarli. Questi scomparivano ma ritornavano ad apparire quando lui li chiamava. Gradualmente il bambino liberava la possibilità di allungare il braccio per prenderli e farli agire rallentando la tensione dei muscoli contratti fino ad arrivare, nel corso del tempo, alla lettura sul computer e alla scrittura alla tastiera.

          Walter si divertiva e mi spiegava con semplicità il suo famoso metodo M.A.E. sull’amplificazione dell’errore che poneva dil soggetto in fase di necessità. Io conoscevo i suoi risultati e la sua grandezza e gli mostravo con soggezione il mio mondo della psicologia dell’immaginario. Mentre con lui la persona operava in modo cosciente e volontario, io cercavo attraverso un incipit di aiutare l’anima a venire fuori, ad agire, a superare difficoltà all’inizio insormontabili e a tirare fuori quella forza che viene da lontano nel tempo e che gradualmente può prendere il sopravvento sulle difficoltà corporee, ammorbidire le tensioni, liberare i movimenti e raggiungere gli oggetti, le persone e gli obiettivi che ci danno piacere. Gli spiegavo che è una forza nascosta che viene dall’inconscio, che stimola il soggetto a evolvere. Gli spiegavo anche che quando si possiede la chiave di lettura dei simboli – attraverso un’immagine scelta, un disegno, una costruzione, una storia inventata- possiamo dare al soggetto uno stimolo in più e riceverne una risposta adeguata.

          Walter trovava dei parametri di corrispondenza con il suo modo di lavorare e tutto ciò era molto interessante per me. Lui presenziava senza intervenire, osservava, capiva tutto senza che io spiegassi e, dopo il lavoro, tracciavamo dei paralleli sui metodi da noi adottati, così diversi: il suo scientifico, professionale, basato su un approccio cosciente e volontario; il mio più legato all’inconscio, più fiabesco e sognante per portare alla liberazione di tensioni e movimenti per raggiungere il desiderato attraverso l’invenzione di storie, le realizzazioni di disegni, costruzioni, elaborazioni d’arte, movimenti danzati e produzioni di musica.

          Quando aveva tempo, Walter presenziava alla rieducazione dei soggetti con lassità dovuta alla sindrome di Ehlers-Danlos, alla rieducazione di bambini e ragazzi con la sindrome dell’X fragile, dei soggetti in sovratono con ADHD che a volte avevano come comorbidità la sindrome di Tourette; soggetti autistici ad alto funzionamento, Asperger con ipersensibilità sensoriali e problemi di integrazione multisensoriale. Incuriosiva Walter, in modo particolare, il trattamento delle disprassie che per lui erano di grande interesse.

          Discutevamo dei soggetti che di fronte a una performance nuova, come sostenuto dal dott. Leonardo Zoccante, hanno difficoltà ad aprire le finestre mentali e psicologiche e faticano a partire per fare un movimento, per compiere un percorso, per fare una scelta; discutevamo su come faceva lui e come mi muovevo io.

          Ricordo che una sera ci siamo chiesti, al tavolo di un bar, in quale percentuale i risultati positivi nella rieducazione possono essere dovuti al metodo adottato e quanto alla passione e professionalità di chi opera, che sa sognare e far sognare e ricordo che abbiamo concordato che sono importanti entrambi ma che occorreva, soprattutto, credere che ogni situazione potesse migliorare e che per tutta la vita si potesse evolvere in positivo.           Avevamo dei progetti, lui voleva che scrivessimo un libro insieme, eravamo compagni di sogni ma non abbiamo fatto in tempo. Mi resta il suo sguardo intelligente, lo sguardo di una persona

La memoria dei gesti” di Mimmo Annese

L’empatia e gli affetti sono una fonte inesauribile di energia. Ad accendere l’intesa tra Walter Bragagnolo e Mimmo Annese bastava la complicità di uno sguardo: il buen retiro di Avellino diventava così, d’incanto, un caleidoscopio di insondabili incursioni in profondità. Mimmo Annese è un commercialista affermato, professione questa che lo direbbe alieno da incursioni filosofico-letterarie. Mai fidarsi degli stereotipi. Cavaliere d’una signorilità antica -quella sì riscontrabile oggi soltanto in certe plaghe del Meridione- Mimmo sapeva percorrere accanto a Walter, con leggerezza, i modernissimi, e ineffabili, sentieri dell’Altrove. Ne lascia, qui, una commossa testimonianza (a.s.)

Le nostre confidenze erano costanti e solidali, tuttavia per me era il «Professore», l’appellativo che mi sembrava più corretto nell’ esprimere quella deferenza e quella stima ineluttabile. Mi ripeteva come un mantra dichiarato di gratitudine, che il misticismo che lo legava a questa terra e la devozione affettiva che gli dimostravo, accogliendolo nella mia casa, erano il frutto di quell’ancestrale energia che lo attirava e lo avviluppava, ogni volta si trovasse ad Avellino.

Ciascun elemento del suo soggiorno lo conduceva inesorabilmente alla riflessione ed alla meditazione, al confronto forbito ed al silenzio condiviso, circostanze quali la mia famiglia ed io, così diversi dallo stereotipo chiassoso ed invadente dell’accoglienza meridionale, gli consentivamo di indossare come un abito da camera comodo, utile a fecondare quell’agio di refrigerio e di riposo discreto, inesorabile, predestinato, dal quale sapeva di poter attingere senza troppe cerimonie.

Per me, per la mia famiglia, per noi tutti, l’amicizia è una cosa seria, l’ospitalità un dovere taumaturgico, un’offerta illimitata di gesti e di attenzioni, che per il Profe erano votati ad una trasposizione della sua identità e dei suoi bisogni, a chilometri di distanza dalla sua inconfessata quotidianità, con il garbo e con la discreta intimità, da far apparire questo luogo e quella sua sedia, un’appendice esistenziale nell’alveo primordiale di una dimensione ultraterrena.

Nell’evocare Fritjof Capra, riconosceva che l’empatia e gli affetti sono una fonte inesauribile di energia codificata in arie e seduzioni, che si traducono in atmosfere rigeneranti: un intenzionale manifesto alto, forbito che celebrava, nella sua citazione, quell’affetto spontaneo che lo legava a noi. Ebbene, il Professore coglieva nei miei gesti, quell’energia, quella spinta emotiva, quella leggerezza dell’essere così profonda e necessaria. Persino lo stuolo di gatti, di cui vado fiero e che accudisco con lo stesso impegno ed amore di padre, sembravano essere un silente esercito a guardia dei pensieri del Profe, rifugiato, coccolato dal riserbo di affetti così profondi e lievi.

Questa casa era il luogo ideale per «separare il grano dalla paglia», in modo inavvertibile, dove alcun ambiente avrebbe potuto essere più consono per seguire il suo percorso interiore, attraverso un viaggio tra quei sapori, quell’arte sinestetica, quelle chiacchiere accorate e convincenti, adatte a consentire al Professore lo sperimentare e l’espandere la propria coscienza, nelle profondità delle vibrazioni più basse, pur restando fermi, attoniti, in quel perimetro di paradiso. I nostri incontri erano un vibrare all’unisono, erano una permuta ed un contraccambio di spiritualità ed esperienze, che consentivano ad entrambi di riconoscere nell’altro, la fonte di guarigione e di benessere, finanche corporale, fisiologico. La trasmutazione della stima deferente e reciproca in un attaccamento trascendente tra di noi, lo abilitavano a perdersi nella voce altisonante del sé, condotto da quella frequenza infinitesimale che trapunta ogni più silenziosa particella di luce presente nel corpo, quella luce che trascende la materia e che illumina il mio ricordo intenerito e fiero del professore, nella memoria dei suoi gesti, nei suoi passi e in quelle sue parole che riconosco nell’aria e in ciascun angolo di questa casa. Quella sedia è ancora lì, inerme ed intoccabile, discretamente violata da qualche gatto, che ancora vigila il silenzio di quegli spazi acerbi cari al Professore.  

Prof, amico mio, non c’è niente di più doloroso che pensare ai tuoi occhi e al tuo sorriso ora che sei andato via per sempre.

“Come una scultura” di Marina Zummo

Marina Zummo, consigliera del Panathlon Club Gianni Brera-Università di Verona, è stata per qualche stagione una delle atlete di punta del movimento atletico giovanile con numerosi titoli italiani all’attivo nei 400 ostacoli. Un grave infortunio patito a Los Angeles durante uno stage in vista delle Olimpiadi del 1984 ha condizionato il prosieguo della carriera. Più di recente si è dedicata alla scultura e alla stesura di testi poetici ispirati agli haiku giapponesi. Il testo dedicato a Walter Bragagnolo è stato inserito nel libro biografico “Il profe che insegnava a sbagliare”

Per raccontare Walter Bragagnolo, servono poche parole.

O addirittura nessuna, se il codice della comunicazione lo consentisse.

Le parole non volano. Impongono dei limiti. E quando si dilatano, gli spazi della percezione possono non bastare. Voglio ricordare il Profe plasmandolo come se fosse una scultura. Era così che lo vedevo. Una scultura da creare attraverso il lampo di concetti-haiku, senza la necessità di imporre loro un ordine logico-cronologico. Come se a scandirne i tempi fosse la memoria del cuore.

Chi era il Profe, dunque?

Era «vivere senza sapere cosa succederà».

Era lo spazio, era la voce di un atleta modellato attraverso il movimento.

 Era tre personaggi sempre alla ricerca di una strada da percorrere insieme: la forma del corpo, l’energia, il battito del cuore. Vita effimera, se quella strada l’avessero percorsa da soli.

Era la coscienza di una ricerca che si muove secondo una logica sensibile.

Era una moltitudine di tecnici/meccanici del corpo umano.

Era la riappropriazione del gesto atletico.

Era l’esteta visionario che intuiva nel movimento l’espressione primaria della vita.

Era la simbiosi di scienza e istinto.

Era, ed è, Walter Bragagnolo che prende forma.

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